Indovina chi viene a cena?

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I più recenti interventi social (Tw) dell’Accademia della Crusca (d’ora in avanti AC) sulla legittimità della declinazione al femminile di sostantivi tradizionalmente maschili (nel senso linguistico) come il giudice, il ministro, il presidente, l’avvocato, il magistrato, il sindaco, e così via, nonché la battaglia in questi stessi termini fortissimamente portata avanti dal Presidente della Camera dei Deputati on. Laura Boldrini, sollecitano alcune indilazionabili osservazioni. Ad essere più precisi, quelle autorevoli posizioni invitano a nozze i Sorci Verdi, che alla lingua, alla letteratura e al pensiero si dedicano costantemente, e per di più consentono l’apertura di un dibattito ragionato sopra una questione recepita acriticamente da giornalisti, intellettuali, professionisti del sapere. Il valore istituzionale della carica presidenziale che ha promosso il tema, insieme alla pavida acquiescenza degli italiani, timorosi di essere tacciati di maschilismo a pensarla diversamente (gli italiani non brillano per coraggio ma eventualmente per singoli atti d’eroismo), hanno spianato la strada ad un monologo unilaterale senza contraddittorio, tipico dei processi inquisitori (a parte qualche controproducente ed inutile mugugno social talvolta malamente espresso nelle solite impresentabili volgarità). Il ragionamento è l’unica arma per chi ha qualcosa da dire, e di questo siamo, con forza, convinti.
L’argomento è stato introdotto sulle pagine della Rivista (http://tinyurl.com/isorci-19 – Parafulmine; http://tinyurl.com/isorci-29marzo sull’equilibrio di genere) ed ora è il caso di portarlo avanti.
Deve essere chiaro che le novità di cui ci si occupa non riguardano l’introduzione di parole prima inesistenti (non si trattava di arricchire il vocabolario), quanto il nuovo modo di concordare gli articoli di genere femminile (determinativi, per lo più – la, le) con sostantivi di genere maschile (salvo comprendere se per via dell’utilizzo del diverso articolo cambia anche il genere del sostantivo). Il problema è, allora, esclusivamente linguistico, perché ciò che si propone è un improvviso cambio di struttura della lingua, visto che s’incide direttamente sulle regole fondamentali di concordanza tra genere del sostantivo e genere dell’articolo.
La prima dissonanza sta nel fatto che il genere linguistico maschile o femminile (in una lingua che non prevede la forma neutra) non ha nulla a che vedere con il genere sessuale dei singoli individui, e perciò non lo riproduce pedissequamente, perché segue sue strade, e sue evoluzioni: segue le sue proprie leggi. Un qualsiasi sguardo approssimativo e veloce al dizionario delle parole consente di verificare questa banale osservazione. Ma questo è solo un primo preliminare approccio, dal momento che la stonatura più evidente  in tutta questa faccenda è la modalità d’imperio di cui si sono avvalsi i soggetti istituzionali per il cambiamento grammaticale in questione. Il Presidente della Camera dei Deputati ha preteso la modifica linguistica nell’aula parlamentare e nelle interviste, invitando a chiamarla la Presidente e non già Il Presidente, ed in precedenza anche un giudice aveva imposto la dicitura la giudice nel timbro utilizzato nelle sentenze (Paola Di Nicola La giudice, Ghena, 2012). Una imposizione, quindi, quella relativa alla concordanza tra articolo e sostantivo (ovvero alla trasformazione del genere del sostantivo), da parte di soggetti investiti di incarichi pubblici e di rilievo, recepita in fretta e furia in altre sedi istituzionali, senza batter ciglio. Le classi intellettive in ogni occasione pubblica ormai declamano, ad esempio: la presidente, quando il ruolo è ricoperto da una donna. Il suddetto metodo ci allontana parecchio dalla fluidità della lingua che si adatta, si modifica, si trasforma al ritmo lento ma efficace di un movimento collettivo, corale, spesso inconsapevole; siamo lontani dai modi tutti propri del meccanismo linguistico che nella sua trasformazione diventa cosa nostra, anzi: opera nostra, spesso senza che ce ne rendiamo conto. In questo caso, invece, il diktat di alcuni soltanto, fulmineo e senza possibilità di replica, e nessuno – AC compresa – se ne è lamentato. Metodo ancora di più dirompente se si pensa che la modifica grammaticale è stata spiegata idealmente (o ideologicamente): la lotta per la parità di genere, si è detto, da cui il corollario: chi non è d’accordo è contro la parità di genere, ergo è un maschilista. Dibattito chiuso. Modifica imposta.
Il dibattito è invece apertissimo per tutti coloro che non hanno ideologie da contrapporre, e non devono schierarsi, perché affrontano ogni questione attraverso il filo della conoscenza, del pensiero, del ragionamento, dell’equidistanza che garantisce un’uguaglianza reale, e offre un orizzonte pacificatore che non invelenisce.
Seconda stonatura, su cui ugualmente non s’è spesa molto l’AC: la forma e le regole interne alla lingua.
Le regole grammaticali, costruite in quel lento processo secolare cui si accennava, costituiscono la struttura e la forma di una determinata lingua: la formano, e le attribuiscono una specifica estetica. Le eventuali modifiche avvengono all’interno di questa estetica, di questo poco rumoroso movimento occulto. E si tratta sempre di regole che, seppur complesse e assai diversificate, sono precise, chiare, e univoche, e si applicano alla generalità dei casi che ricadono sotto il loro dominio. Le trasformazioni imposte oggi, al contrario, hanno abolito le vecchie regole senza elaborarne di nuove (in sostituzione delle precedenti), ed hanno così lasciato la soluzione linguistica alla scelta individuale caso-per-caso, originando derive anarchiche ed esiti talvolta comici (se non grotteschi). Ad esempio, non è per nulla chiaro se la finalità della parità di genere comporti l’utilizzo dell’articolo di genere femminile con il sostantivo maschile, da cui il presidente la presidente (sapendo in anticipo il genere del soggetto che ricopre quel certo incarico), ovvero se il genere femminile del soggetto determini automaticamente la declinazione femminile del sostantivo (il ministro la ministra, il magistrato la magistrata, l(o)’avvocato l(a)’avvocata). Nella pratica quotidiana assistiamo all’applicazione disinvolta di entrambi i modi, e vale la pena di sottolineare che la trasformazione di ministro in ministra ecc. presuppone una ben precisa regola, cioè che il genere del soggetto sia identificato sempre dalla lettera o se maschio, e dalla lettera a se femmina, ma si tratta di regola per nulla ricorrente nella nostra lingua (si pensi alla parola poeta, oppure alla parola geometra). Neppure è comprensibile, sempre sotto il profilo delle regole strutturali, la ragione di un’applicazione di regole diverse a fronte di casi identici. Per esempio, nell’ambito scolastico la lingua contempla i termini professore e professoressa, e nell’ambito degli organismi collegiali i termini presidente e presidentessa, e tuttavia nel primo caso non si è mai contestato l’uso del termine professoressa ad indicare insegnanti di genere femminile, e nessuno ha mai proposto l’alternativa la professore (o, peggio, la professora), mentre nel secondo caso si è abbandonato il termine presidentessa preferendo la strada dell’intervento correttivo imperioso sull’articolo da utilizzare. Quale regola si è mai seguita nell’adozione di soluzioni diverse a fronte di casi identici?
Il fatto è che le strutture linguistiche ubbidiscono esclusivamente alle loro regole interne la cui formazione è risalente e di difficile ricostruzione, e s’impongono secondo dinamiche interne e non per scelte improvvise ed esterne. Tant’è che sarebbe fatica vana cercare di comprendere come mai nella nostra lingua per i termini che indicano un ruolo o una posizione o una professione, le soluzioni che ci sono offerte sono assai varie. Facciamo qualche esempio. In alcuni casi il termine è declinabile sia al maschile che al femminile: il professore – la professoressa, il maestro – la maestra, il dottore – la dottoressa, il biologo – la biologa, il direttore – la direttrice;  in altri lo stesso termine, pur restando immutato nella sua forma, è declinabile sia al maschile che al femminile: il la dirigente, il la preside, il la pediatra, il la docente. In altri casi ancora il termine non contempla la forma femminile: il notaio, l’avvocato, l’ingegnere, il chirurgo. Differenziazioni irrisolvibili alla luce di una qualsiasi ideologia, ma funzionali a quei canoni estetici, ritmici e singolari che governano lo sviluppo di una lingua. Naturalmente, il fatto che non sia prevista una declinazione femminile sotto il profilo linguistico non implica che quel ruolo o professione non possano essere ricoperte dalle donne, posto che le leggi che si sono succedute nel secolo precedente hanno rimosso qualsiasi ostacolo al riguardo, ed è questo l’aspetto realmente rivoluzionario sotto il profilo sociale.
In realtà, quando si ha di fronte una specifica lingua – quella italiana, ad esempio – si tratta molto semplicemente di prendere atto che le soluzioni linguistiche, proprio per questa accentuata differenziazione, all’evidenza rispondono a fenomeni formativi interni che sfuggono ad una costruzione esterna dettata da ragioni diverse dal sistema linguistico stesso, il quale ha in sé i propri rimedi e i propri adattamenti in vista della conservazione di un’armonia, una unità ed un’estetica. E quando si parla di lingua italiana questi aspetti sono di enorme importanza.
Ed allora, forzare la mano all’impianto della lingua, come si è inteso fare, da un lato crea un vulnus perché rompe l’equilibrio interno e la connessa estetica, dall’altro, volendo soddisfare non già  esigenze linguistiche ma quelle esterne (ed estranee) di una specifica convinzione (ideologia), lascia l’arbitrio della soluzione al singolo caso evitando di dettare nuove specifiche regole. Ognuno, quindi, sarà libero di dire il presidente o la presidente, il notaio ovvero la notaio oppure la notaia, l’(a)ingegnere oppure l’ingegnera, la sindaco oppure la sindaca, e via di seguito, con molti connessi rischi. Di trascendere nel comico quando un solo cambio di lettera può rivelarsi oltraggioso (la ministra evoca risibilmente la minestra), oppure nell’equivoco più eclatante (la matematica – riferita al soggetto femminile – che si confonde con la matematica – la materia). Senza addentrarsi nella declinazione al plurale: si dirà: le presidenti? le giudici? le geometri, oppure, nella peggiore cacofonia, le sindache? Di trascendere nell’improvvisazione soggettiva più cruenta che non perde l’occasione di applicare allegramente le non-regole ad ogni situazione appetibile: l’assessora, la pubblico ministero.
Senza poi considerare che una scelta linguistica dettata da un’ideologia o da personali convincimenti consente di indicarsi, riconoscersi, additarsi, creando differenziazioni, ostracismi e, puntualmente, razzismi che non appartengono alla lingua rispetto alla quale esistono soltanto due categorie di soggetti: coloro che la conoscono e la praticano e coloro che non la conoscono.
Infine, scardinare la formazione collettiva della lingua per sostituirvi scelte individuali, o ideologiche, o di gruppo, è un’operazione assai pericolosa: 1) perché le uniche scelte di tal fatta che s’imporranno saranno solo e soltanto quelle di chi ha in quel momento una carica pubblica o istituzionale dotata della forza sufficiente per l’operazione linguistica che si ripromette di imporre; 2) perché escludendo la formazione lenta e collettiva della lingua non consente di discernere tra ciò che è corretto linguisticamente e ciò che è sbagliato (quali regole si dovranno seguire nell’insegnamento della lingua, e nella correzione degli elaborati?); 3) perché introducono nel meccanismo che forgia una lingua elementi spuri provenienti dai propri personali convincimenti (politici, etici, religiosi, ecc.) rendendola cosa propria di chi di quel convincimento è fautore o sostenitore, escludendo gli altri.
La lingua è un prodotto storico collettivo sul quale nessuno può vantare alcun diritto di proprietà, ed è veramente l’unico bene comune per il quale vale la pena di affrontare ogni conseguenza.
#nessunotocchilalinguaitaliana

 

Michele Mocciola

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