Arca Russa di Aleksandr Sokurov

Un Paese in bottiglia

Sono passati 17 anni da quando un narratore, interpretato da Sokurov stesso, si ritrovava nell’Hermitage di San Pietroburgo come per magia, attraversando tre secoli di storia della Russia in compagnia di un diplomatico francese, tra strani incontri, duelli verbali, inquietanti allusioni e finestre su mondi che non esistono più. L’uscita in blu-ray (ma c’è anche in dvd) di Arca Russa dopo il crowfunding della CG Entertainment è una bella iniziativa; compratelo, fatelo comprare, guardatevelo, e non perdetevi i due extra gustosi: un commento al film di Ghezzi, come al solito capace di imbrogliare e sbrogliare matasse filosofiche sempre pertinenti, perdere il filo, ritrovarlo, riperderlo, riavvolgersi su sé stesso e dare una lettura del film affascinante; e il backstage In one breath, che racconta la genesi e l’impresa di un film ai limiti del possibile. La scena finale del dietro le quinte mostra in modo significativo Sokurov e il cameraman Tilman Büttner prostrati fisicamente e psicologicamente, entrambi emozionati (Sokurov è in lacrime, imbambolato), sfiniti da una tensione incredibile: girare un’ora e mezza di cinema in un solo pianosequenza senza tagli, in una singola ripresa. E la quarta, dopo tre tentativi falliti, era l’ultima possibilità.
Va da sé che per i cinefili l’interesse principale deriva proprio dallo sforzo produttivo e tecnico dietro un film così, che ha a che vedere con la fragilità del cristallo, con l’esile filo del giocoliere che da un momento all’altro può essere sbalzato al di qua del suo sfoggio equilibristico, o con l’eroismo d’altri tempi – di un cinema che non esiste più – di Werner Herzog.
Quando si guarda Arca russa per la prima volta lo si vive con una sorta di palpitazione, come se da un momento all’altro qualcosa potesse irrompere in scena a rovinare l’incantesimo svegliandoci da un sogno. E’ la stessa tensione della famiglia dello zar Nicola II che fa colazione con la famiglia, forse per l’ultima volta, mentre fuori (ma fuori dove?) arrivano segnali minacciosi di spari. Qualcosa potrebbe finire da un momento all’altro. Un mondo sta per collassare. Ma non finisce niente, nulla collassa, certo: l’arca russa è proiettata in una dimensione irraggiungibile, eterna, “palindroma” per dirla come Ghezzi, dove si naviga per sempre e vive per sempre; è un’isola pianeta come il Giappone nebbioso delle Elegie di Sokurov, o l’allucinazione (collettiva?) nel finale di Solaris, del maestro Tarkovskij.
Poi, in Arca Russa, sopraggiunge di solito un’altra tensione: quella di un cinema a cui non si può essere abituati e in un certo senso ci frustra. Se la cornice cinematografica viene privata del montaggio di conseguenza siamo “forzati” ad adottare un punto di vista da cui non possiamo sfuggire. Vorremmo scappare, si, ma siamo ingabbiati in questa immensa architettura che è l’Hermitage di San Pietroburgo, e con noi intrappolati sono gli zar, gli aristocratici, gli spettri del passato. Viene da pensare che un film del genere in mano all’ultimo Rossellini sarebbe venuto fuori come un polpettone indigeribile tra una puntata di Superquark e il peggior didascalismo scolastico. Sokurov invece fa qualcosa di molto più estremo, e in un certo senso poco popolare: stipa in un film tutto il possibile, rendendolo un film-contenitore come ha sempre provato a fare Greenaway, qualcosa di multidisciplinare e artistico in senso stretto, ma senza essere letterario: Arca russa è DAVVERO un museo in movimento, è la Storia in movimento, è l’intersecarsi di trecento anni di cultura russa, di Caterina II, gli zar, le composizioni di Tchaikovskij, di Glinka, ma non solo: c’è anche la cultura europea coi Canova, i Tintoretto, l’odore dei dipinti a olio ma pure quello delle bare, dell’invasione nazista, in un delizioso (o angoscioso) incontro/scontro tra due universi paralleli che si parlano da tempo incontrandosi senza capirsi mai del tutto; Arca russa è anche un esempio di come un luogo possa diventare il protagonista di un’opera: l’Hermitage è l’organismo pulsante e insostituibile dove si muovono i personaggi attraverso tantissime sale, e in tal senso è come quei grandi romanzi urbani dove era la città a cantare con le sue polifonie dispiegando brandelli di storie, pezzi di discorsi o larve di avvenimenti: la Dublino di Joyce, la Berlino di Döblin, la Praga di Ripellino, e il resto riempitelo come vi piace.
Il dialogo costante di Sokurov è quello di chi da sempre si interroga spiritualmente sul ruolo della cultura nel nostro tempo, della Russia nel mondo e di sé stesso in quanto artista che sta creando – MENTRE sta creando. Magari parlando a sé stesso in un solipsismo allucinatorio (e si torna a Solaris), ma con una tenacia continua, perché il cinema di Sokurov è davvero un cinema di domande irrisolte e di ricerca senza fine, spirituale e culturale.
Sokurov è come Michelangelo, come Tarkovskij: un maestro nello scolpire il tempo da quel blocco monolitico già formato che è. Ma questo blocco, nel caso di Arca Russa, diventa per una volta fluido, quasi leggero, nel chilometro e mezzo che la macchina da presa attraversa: non come succederà con Faust, con il resto della sua filmografia, o come era successo con Elegia di un viaggio dove già il regista finiva in un museo, bloccandosi su un Rembrandt. Qui Sokurov torna sul luogo di un delitto non perfetto, quello dell’Hitchcock di Nodo alla gola, e perfeziona con i mezzi a disposizione all’epoca (siamo nel 2002) l’esperienza immersiva che può regalare il cinema, e forse mai l’ha regalata prima COSÌ, con questo pathos, questa densità mista a leggerezza (la stessa dei piccoli angioletti che svolazzano nella sequenza dei Romanov, o magari sono ninfette: Nabokov docet). Sì, il fatto che sia un pianosequenza di un’ora e mezza con migliaia di attori, orchestre dal vivo, riferimenti eruditi e non facili da cogliere fa parte del fascino misterioso che quest’opera continua a suscitare dopo tanti anni, ma come dice lo stesso regista è il fatto che sia un’opera artisticamente riuscita a farne l’oggetto meraviglioso che è, perché siamo di fronte a uno sfarzo visivo che nel cinema russo non aveva eguali dai tempi del Guerra e pace di Bondarchuk, e che in un certo senso alla presa del palazzo d’inverno mostrata da Eisenstein col suo montaggio rivoluzionario contrappone un modo di fare cinema che torna indietro per fare dei balzi in avanti: tutto in una singola ripresa, si, ma come non era mai stato possibile fare prima.
Resta da sciogliere un ultimo dubbio: se Arca russa sia un’opera revanscista. Sokurov parla in maniera semplice adottando il linguaggio più complesso che potesse concepire, e di strombazzate patriottiche non sembra esserci traccia: è di sicuro un film malinconico, è molto commovente (sfido a non emozionarsi sul finale, che scioglierebbe pure le pietre). Ma è come quel meraviglioso numero del Sandman di Neil Gaiman, Ramadan, dove la magnificenza della Baghdad dei tempi andati veniva per sempre cristallizzata per volere del califfo Hārūn al-Rashīd. Sokurov ha fatto lo stesso, ha imbottigliato la sua Russia come quell’insigne studioso di Storia e Letterature russe, Archibald Moon: di costui, nel romanzo di Vladimir Nabokov intitolato Gloria, “si diceva che la Russia fosse l’unica cosa al mondo che […] amasse. Molti non capivano perché non vi fosse rimasto. La risposta che Moon invariabilmente dava a domande del genere era: «Chiedete a Robertson» (l’orientalista) «perché non è rimasto a Babilonia». A chi obiettava, con assoluta ragionevolezza, che Babilonia non esisteva più, lui replicava annuendo con un muto sorriso sornione. Riteneva che l’insurrezione bolscevica rappresentasse un taglio netto. Pur essendo disposto a concedere che, un po’ alla volta, dopo le fasi iniziali di barbarie, nell’«Unione Sovietica» si sarebbe potuta sviluppare una forma di civiltà, sosteneva tuttavia che la «Russia» era conclusa e irripetibile, che la si poteva sollevare fra le braccia come una splendida anfora per metterla sotto vetro. La pignatta di terracotta che adesso si stava cuocendo là non aveva niente a che fare con la Russia. Trovava assurda la guerra civile: una parte combatteva per lo spettro del passato, e l’altra per quello del futuro; e intanto, senza strepito, quietamente, Archibald Moon aveva trafugato la Russia e l’aveva chiusa a chiave nel proprio studio.”
Nabokov fu un esule di una Russia che si apprestava a diventare il centro nevralgico dell’Unione Sovietica. Sokurov è un esule spirituale di una cultura a cui sente di appartenere ma che può continuare a raggiungere solo nei suoi sogni, che sono il suo cinema.

 

Nicola Laurenza

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