Il primo giorno di pensione

- Racconto -

Sulle tavole imbandite non c’è posto per la Morale.
Barone von M.

Il panorama era incantevole. Si stendeva giù, sopra le chiazze degli alberi dalle cime appuntite, sopra le distese di trifoglio verde. Si allargava e poi stringeva nelle gole incuneate tra ripide pareti lisce, si screziava di nuvole, si riempiva di volatili curiosi, fino a raggiungere ai bordi il filetto azzurro più intenso, che lasciava presagire la presenza del mare. E da questa pianura così in alto, di tanto panorama, si godeva la vista, affascinato, il professor B**. Un’aria così pura dove avrebbe potuto trovarla! certamente mai in città, dabbasso; e una tale nitidezza di colori pure non era cosa da tutti i giorni. Era quel cielo così azzurro che lo impressionava lasciandolo a bocca aperta, mentre il pandemonio di alberi, verdi chiome, pietre rozze e grigie, terre distribuite in lontananza, lo sbigottiva chiedendogli un respiro in più, un respiro appena più profondo. Era lì, sopra il mondo, da solo, con le scarpe che di poco affondavano in uno strato di neve raggelata che scricchiolava ad ogni movimento; era lì, il professor B**, a godersi in santa pace la bellezza del mondo ai suoi piedi, e la potenza della sua vita trascorsa ad onorare gli impegni che quella stessa vita gli aveva assegnato.
Era anziano quel tanto che basta a regolare propri conti, e sufficientemente lucido, e presente, per essere in grado di avvistare falle, macchie, o similari; il fatto è che lui non ne vedeva, come non vedeva ombre in quel panorama che vieppiù lo incantava dicendogli (ne era certo): è questo il paradiso. Si muoveva il poco necessario per godere, nel silenzio più assoluto, lo scrocchio della neve. Anche i volatili erano muti, svettavano senza stridere, e le ombre, rare, mai oscuravano il sole che pure non c’era. Non c’era il sole ma la luce sì, una luce che non abbagliava, colorava e basta, regalando un’armonia completa, sconosciuta fino ad allora.
Il professor B** aveva giocoforza una bella famiglia fatta di moglie – una e una soltanto – e figli (tre per l’esattezza), tutte femmine, oramai in età adulta, assennate, intelligenti, educate alle buone maniere; godeva, egli, di un decoroso prestigio professionale curato nel corso dei molti anni di servizio e nulla era appuntabile sul suo petto a mo’ d’insulto, nulla! salvo quelle sciocchezzuole, piccole debolezze, tradizionalmente ben accette per amor di patria. Eppure, nonostante abitasse in una casa solida e con fondamenta robuste e indistruttibili, aveva avvertito il bisogno di guardarsi dall’alto onde verificare se tanto apprezzamento fosse riservato anche da lui verso di sé. Un proforma s’era detto, giusto una prova, perché l’esito era certo, la memoria non tradiva colpe passate, esse non c’erano, quindi sarebbe stato un viaggio di tranquillità interiore. Più che altro per allenare le gambe che iniziavano a cedere talvolta; e per respirare a pieni polmoni un’aria per nulla infetta; e per rimanere qualche ora da solo, per una volta. Voglio restare solo con la mia coscienza, aveva detto solennemente davanti allo specchio, ed era partito a piedi quel giorno: il primo giorno della sua meritata pensione.

Uscito dalla città dal lato ovest, aveva preferito strade poco affollate, viottoli non battuti, iniziando a salire senza una meta mentre le voci cittadine si affievolivano e i rumori arrivavano a lui solo tramite delle flebili eco, e si era ritrovato lassù, dove mai avrebbe immaginato un simile spettacolo ai suoi piedi; lo considerò un segno di buon auspicio per il lavoro che s’aveva da fare: si sarebbe sbrigato in poco tempo. In realtà, preso dalla bellezza, dal silenzio, dai colori e quant’altro, aveva perso la cognizione del tempo lasciandosi cullare dal dondolio di reminiscenze frivole e poco impegnative, dimenticando la vera ragione per cui s’era spinto fin lassù. Probabilmente, anche la sua coscienza s’era intorpidita, e adesso sonnecchiava. Guardava, respirava, sorrideva, e non voleva fare altro: era solo un proforma. E chiuse gli occhi. Furono attimi di straordinaria intensità per il professor B** così poco avvezzo agli entusiasmi giovanili, follicolari, ed il bello era che poteva goderne stando solo, lontano dai commenti famigliari e dal chiacchiericcio di disturbo, che lo avevano indotto ad astenersi – da tempo – da indecorose manifestazioni di euforia. Ora, lì, in completa solitudine poteva dare sfogo alle emozioni che quel posto gli provocava a fiumi, liberando dentro tuoni di inaudita potenza, lava di fuoco crepitante, assistendo fulmini guizzanti che accendevano un cielo già chiaro di suo. In tutto questo si inseriva un crepitio sotto le suole sempre più insistente, un crocchiare alquanto sospetto di quella neve appena indurita. Se solo il professor B** vi avesse prestato attenzione! Ma lui era inebriato dal resto. Finché allo sfrigolio si aggiunse una strana sensazione, come di un cedimento improvviso del terreno accompagnato da un rumore più forte, roboante. Il professor B**, tornato alla realtà delle cose guardò verso il basso appena in tempo per accorgersi che iniziava a sprofondare, cercò una via di fuga: troppo tardi per un evento tanto repentino. Sotto i suoi piedi e  sotto i suoi occhi si aprì un’orrida voragine in cui precipitò senza scampo avendo la certezza di una inderogabile atroce morte. Urlò e urlò, chiedendo un aiuto impossibile, e mentre urlava si aggrappava – inutilmente – alla parete di quel buco pauroso privo di appigli, per di più friabile, mera polvere agglomerata che tornava a essere polvere al primo contatto. Precipitò a rotoloni con una velocità progressiva verso un punto indefinito, sommamente ignoto, con la vivida coscienza di un’imminente fine cui assisteva senza cedimenti biologici, così che la paura di assistere al pietoso spettacolo della propria morte di più lo atterriva. Precipitò dentro l’inesorabilità del caso che all’improvviso coglie, precipitò bianco in volto, gli arti graffiati, risucchiato da un vortice di aria sempre più fredda: l’attesa si rivelava fin troppo lunga, e sadica, e infinita. E dopo un tempo così lungo, rassegnato a vagare nel vuoto di una non più esistenza, quando all’iniziale terrore s’era sostituito una maggiore calma di rassegnazione di fronte a un disegno chiaramente ineluttabile, avvertì quattro braccia possenti rallentarne la caduta e con lui planare sopra uno spiazzo fino a quel momento invisibile. Caddero in piedi, tutti e tre, come fosse l’inizio di un’altra e nuova storia.

I due energumeni, spazzolato alla meglio il professor B**, si avviarono con passo fermo facendogli intendere di seguirli. Il professore, inebetito a dir poco, non stette lì a chiedersi il come e il perché, banalmente si affidò alla corrente della vita, perché a lui quella strana vicenda gli sembrava una nuova vita. Attraversarono nel sottosuolo – strano a dirsi – arbusti nodosi, rivoli d’acqua scura, strettoie di pietra fredda e gelatinosa: in silenzio. Un silenzio interrotto a tratti dalla voce di uno dei due: vedrà, vedrà, salmodiava, come anticipo, lungi da lui spaventarlo o ammansirlo. Il non lungo cammino li condusse in uno spiazzo ricolmo d’acqua. Il professor B** guardandosi intorno sconcertato toccava la volta di roccia a chiazzi coperta da muschio, annusava il freddo che ristagnava, e guardava impaurito la grande pozza d’acqua che sembrava attendere proprio lui. Fu così. I due energumeni lo afferrarono per le braccia e si gettarono con lui nello stagno, lacerando la pace di quel posto; affondarono, risucchiati da un mulinello sorto all’improvviso. I tentativi del professore di liberarsi dalla morsa furono vani; soffocava, sì soffocava, in quel gorgo d’acqua stritolante che, prima dell’irreparabile, con un colpo di coda lanciò lui e gli altri lontano, a pelo da acqua, appena prima di una comoda scala, utile per tornare su una terra più ferma. Inizia un nuovo giorno, disse l’uno; è tardi, dobbiamo sbrigarci, non c’è molto tempo ancora, disse l’altro. Il professore faticava sui gradini alti, inzuppato d’acqua e un accenno di tosse, e ci volle tutta la pazienza e il soccorso di quella specie di angeli custodi a garantire al molliccio professore di arrivare integro sul terrapieno di destinazione dove, una volta arrivato, il professor B** alzò lo sguardo, la vide: e svenne.
Lei – o forse dovrei dire Loro – non mossero neppure un sopracciglio. Non erano per la pietà né per la compassione verso il genere umano, e stettero, in attesa che lui si riprendesse. Difficile dire cosa passò nella mente del professor B** nell’attimo in cui Lei si manifestò nella sua apparente mostruosità. Lei in effetti erano tre. Tre donne in una, laddove ad un solo corpo assolutamente nella norma (senza infamia e senza lode) corrispondevano tre teste diramanti da un unico collo, slanciato e senza rughe. Credo di poter dire che ciò che impressionò maggiormente il professore non fu la particolarità di una donna a tre teste quanto i connotati di ciascuna di esse e il movimento spastico. La Prima testa – la prima a partire dalla sinistra dell’osservatore – era di bambina, fresca e luminosa, con capelli corti, e ciarliera quanto mai; la Seconda era invece di una donna adulta, espressione attenta, meticolosa, capelli lunghi alle spalle, tracce di abbellimenti femminili, e linguaggio penetrante; la Terza infine era di una donna anziana, abbastanza anziana, direi una vecchia, rugosa, sorridente, pacifica, occhi disponibili. Le tre teste si muovevano in continuazione – la più frenetica era ovviamente quella di fanciulla – ma ciascuna al proprio ritmo, con sghignazzi ed effervescenze, parlavano solo tra loro alternando ad un linguaggio noto un linguaggio per nulla comprensibile: loro tre, però, si intendevano alla perfezione. Mentre le tre teste si davano un gran da fare nel modo che ho detto l’unico corpo che esse sovrastavano (e c’è da dire con accentuata dignità) era seduto dietro un tavolo di modesta e ordinaria fattura – sbirciando di sotto si avvistava una porzione di gambe, leggermente divaricate, e un’accennata intimità. E quel corpo tranquillo ab aeterno puliva montagne di verdure, erbe, legumi, e tutto ciò che si possa immaginare, rappresentandosi quel lavoro senza una fine. E non era tutto.
Riavutosi dallo svenimento, intanto che metteva a fuoco la donna mostruosa, il professor B** si accorse che dietro di lei una lumaca di proporzioni inusuali, tanto era grande, avanzava, ringhiando, con la bava alla bocca, facendosi sempre più vicina ad un’incisione della parete di roccia liscia e piatta – dietro le tre teste – che copriva la parete per intero: l’immagine sconcia di un uomo completamente nudo, possente nella muscolatura, seducente nello sguardo, con ricciuta capigliatura. La grossa lumaca, lenta come nelle favole e nella realtà, divorava ciò nonostante metri su metri essendo ad un passo dalla preda stampata sulla parete, e più era lì lì per salirci sopra, più si ingrossava quel filo di bava che scorreva dalla bocca lungo la parete fino al pavimento che se ne inzuppava. Il grugnito (o simil suono) incrementava ad ogni passo scuotendone il corpo. Le tre teste, indifferenti all’uomo come agli animali, tra uno sbadiglio e l’altro conversavano a spizzichi e bocconi nella lingua sconosciuta. In realtà al professor B** poco interessavano quelle lì, piuttosto era ipnotizzato dalla lumacona pronta ad assalire l’incisione, e, senza comprenderne la ragione (tanto quella ragione era profonda e abitante in abissi di ignoranza), viveva uno stato di esuberante angoscia per la sorte dell’uomo disegnato, perché era chiaro che la bestia affamata a quel disegno mirava, leggendosi nel di lei sguardo la più deflagrante delle meraviglie: quella erotica. Giunta a un passo dalla vittima l’animale si fermò tentennando le antenne: era pronta; il professor B** sentì il flusso sanguigno a livelli mai avuti, spalancò la bocca per il terrore, e quando la lumaca con una mossa fulminea si avventò sul cuore dell’uomo in effigie per scavarvi, proprio lì, un profondo buco, emise un grido disperato per accasciarsi, di seguito, una seconda volta.
Ah-ah-ah – esplose in una risata la Primala lumacona era in ritardo, aveva fame poverina, sentitela come rumina. Sono sicura – aggiunse la Seconda scuotendo vivacemente la testa verso le altre – che se qui ci fosse un maschio, quelli che conosciamo tanto bene, tutto lavoro e dirittura morale e solide basi, quell’uomo (e intanto rideva) si sentirebbe male come una donnetta da quattro soldi, e lo sentiremmo piagnucolare proprio come fa una femminuccia innamorata del belloccio che di lei non ne vuol sapere. Si sentì un boato, era la Terza, con le lacrime agli occhi per il tanto ridere: oh-oh, sì-sì, proprio una femminuccia; la Seconda: che poi se non ci fosse il mondo a farci divertire sapete che noia, e sbadigliò. La Prima: avete visto com’è lesta oggi la nostra lumacona, è tutta infervorata, chissà che l’è preso; la Seconda: pare un treno, va che è una meraviglia; la Terza: è più eccitata del solito. E di nuovo ridevano all’impazzata scuotendo le teste. In effetti la lumacona dopo il cuore era passata agli occhi lasciando al loro posto due buie cavità, ed ora assaporava l’intera faccia sfigurando l’originaria bellezza. Nel frattempo il professor B**, ridestato dai poderosi buffetti degli energumeni, sorretto, assisteva rassegnato allo scempio del suo simile. Uno spettacolo inaudito, intriso di malvagità, scellerato quanto quelle tre donne amorali che non davano segno di fastidio. Dov’era mai capitato? e che vita si profilava per lui?
La Seconda: eccitata! mah! e di cosa poi? a parte che qui non c’è nessuno, quale uomo potrebbe mai eccitare a tal punto la nostra amica dai gusti raffinati; la Terza: piuttosto sbrighiamoci che la lumacona accelera di brutto e noi non abbiamo ancora deciso il da farsi; la Seconda: com’è impegnativo decidere le sorti altrui; la Prima: occuparsi degli uomini anche qui! che noia!; la Terza: ah! proprio così! dici bene, però almeno possiamo smascherarli; la Seconda: se la fanno addosso dalla paura; la Terza: altro che maschi! sono proprio dei coniglioni; la Seconda: buono il coniglio, ne vado pazza, con le patate e il rosmarino poi!; la Prima: patate fritte? ne vorrei una tonnellata; la Seconda: ma quali fritte, stupida, quando mai il coniglio si mangia con le patate fritte, eppure te l’avrò detto cento volte; la Terza: non trattare così la bambina, sei una megera; la Seconda: se io sono una megera tu cosa sei, una vecchia balorda. La prima testa fece una boccaccia rivolta alla seconda, che la colpì con una testata, mentre la terza le mordeva un lobo, al che la seconda lanciò un urlo, cui si aggiunse il grido isterico della prima e un grugnito animalesco della terza. Tutti restarono immobili, e la lumacona per un secondo arrestò l’impegno escavatore, girandosi a guardarle. Si fece il silenzio della notte e del freddo, il silenzio della morte, dei secoli passati, dell’universo infinito, del buio inaccessibile, e al professor B** non restò che pensare: la mia ora è giunta. Iniziò a pregare.
La voce proruppe più squillante di prima: bene, ora che ci siamo sfogate come si deve possiamo occuparci meglio di qualcos’altro. La Prima: sì-sì, occupiamoci di qualcos’altro, così ci divertiamo, ci occupiamo di lui?; la Seconda: di lui chi? bambina mia sei ancora così fanciulla da vedere ciò che non c’è? tu scambi il sogno per realtà, i fantasmi per esseri in carne e ossa; la Prima: e allora?; la Terza: allora seguiamo la nostra natura, occupiamoci di noi. La donna in tre iniziò un chiacchiericcio fitto in quella lingua incomprensibile di cui si potevano cogliere esclamazioni, interiezioni, cenni di consenso, di disapprovazione, momenti di inaspettata riflessione. Intanto, il professor B** transitava per sensazioni contrapposte: dallo sconcerto alla curiosità, allo sgomento, fino alla paura. In cosa sarebbe consistita la loro natura che il mostro stava per seguire? quelle non potevano essere delle donne – si diceva – le donne non sono così, così sguaiate e irriverenti e prive di eleganza e anche offensive, prive di pietà e lacrime e di maternità. No!, quelle, donne proprio non erano. Il pensiero fu fugace, ma le teste ripresero a parlare, comprensibilmente. La Prima: secondo me qualcuno sparla di noi; la Terza: ma se ti abbiamo detto che non c’è nessuno, che ci siamo solo noi, la vuoi capire o no?; la Seconda: anche perché se così fosse gliela faremmo pagare; la Terza: e noi siamo molto professionali in questo, e sappiamo anche divertirci, siamo sadiche, tanto sadiche; la Prima: come l’altra volta?; la Terza: forse anche peggio, arriva sempre un momento in cui uno paga per tutti, ricordatelo cara bambina, la vita è così ingiusta!; la Seconda: ed è proprio per questo che abbiamo il compito di essere inflessibili, impietose, altrimenti perpetueremmo una ingiustizia di fondo ammantata di buon cuore; la Terza: oh! com’è irritante il buon cuore; la Seconda: l’hai detto, applaudo; la Prima: ma allora che si fa?; la Seconda: io un’idea ce l’avrei; e tace. La Prima: dai non tenerci sulle spine, sputa; la Terza: fai la misteriosa? guarda che passo al solletico; la Seconda: beh, potremmo …, e ammiccò con un occhio; la Terza: no, ti prego, no, non possiamo … quello no; la Seconda: e perché no? qualcuno può impedircelo?; la Prima: la tua coscienza cara. La donna adulta scoppia in un riso a singhiozzo, impossibile da trattenere: e che ne sai tu della coscienza, bimbetta, e in ogni caso in questo luogo non c’è posto per coscienze morali e sciocchezze di tal fatta, quindi … l’unica soluzione è quella che sapete. Ripresero a conversare nel modo loro a cui ogni altro era escluso, e parevano parlassero di stoffe, tanto erano tranquille, invece concordavano i dettagli della sorte di un uomo di cui pure ignoravano la presenza: un uomo oramai allo sbando, in preda al panico per un infausto destino che intuiva chiaramente. No, no, no, non voglio morire, piagnucolava il professor B**; no, no, non voglio, ho sempre rispettato tutte le regole, perché ce l’avete con me, e dicendolo tremava come una foglia, asciugandosi le lacrime col bavero del cappotto. Ma chi ti dice che non sei già morto, gli fece tronfio della sua cattiveria l’energumeno n. 1; ah-ah-ah, rideva l’energumeno n. 2, è convinto di essere vivo. Sono già morto?, chiese incupito il professor B**; e chi lo sa, rispose l’energumeno n. 1, nessuno sa veramente cosa succede qui dabbasso, solo loro lo sanno (e indicò la donna), noi ne siamo all’oscuro. Allora potrebbe essere che sono ancora vivo, disse con un accenno di euforia il professore, quindi ho una speranza; ma sì, sì, sono vivo, per forza, sennò come potrebbero punirmi con la morte se sono già morto? si ripeteva, gonfio di logica. L’incauto professore non riusciva all’evidenza a concepire una punizione più enorme di quella della morte. Beh! per esempio potrebbero costringerti a baciarle per l’eternità, oppure potrebbero tramutarti in una lumaca come quella sul muro, potrebbero usarti come sgabello per i loro piedi gonfi, le punizioni possibili sono tante, fecero soddisfatti in coro i due energumeni. Il professor B** assunse un’aria pensierosa, avrebbe voluto angosciarsi per quelle temibili punizioni paventate dagli scagnozzi, ma gli scorrevano lisce come l’olio sopra la fronte; all’orizzonte rimaneva ferma la visione orrifica della propria morte: per lui restava quella, la morte, la punizione di gran lunga peggiore.
Non sapendo bene cosa fare prese ad informarsi presso gli energumeni, col dovuto tatto e rispetto e la necessaria discrezione, circa abitudini, preferenze, desideri delle tre affascinanti donne – proprio così le qualificò ad onta di una realtà insuperabile – perché – disse loro a bassa voce – forse omaggiandole di un fiore, di una scatola di cioccolatini, di foulard o altro pregevole capo di abbigliamento (di marca s’intende, aveva aggiunto) sarebbe riuscito a ottenere la loro benevolenza e allontanare la morte che si profilava al limitare. I due omoni, dandogli pacche di complicità, spintonandolo, toccandolo in mezzo alle gambe e sbeffeggiandolo, ripetendo ad alta voce le sue domande (mentre il professore terrorizzato li invitava a tacere, per l’amordidio, aveva supplicato) gli avevano spiegato che non erano certo donne di quel tipo lì, e che nemmeno una pelliccia lunga fino ai piedi, la più cara al mondo, le avrebbe indotte a più miti consigli. Quelle non erano donne, gli avevano detto all’orecchio con un alito assai pesante, e neppure uomini vestiti da donne: erano incubi sfuggiti alla notte. Il professore, allora, pensò a un libro di poesie romantiche, o, alla peggio, a libri di narrativa (e citò quelli in voga), ma seppe che quelle tre non erano per nulla romantiche e mai erano state viste con un libro in mano. Pareva che addirittura odiassero la lettura e i suoi accoliti. Il professor B** tentò altre sortite analoghe, ed evocò profumi, gioielli, case, denaro e tutto quanto per anni aveva regalato alla moglie e alle figlie femmine, rendendole felici: le risposte furono sempre le stesse, sconfortanti negazioni. No, no, no, niente di tutto ciò avrebbe potuto rasserenare le menti di quelle, anzi c’era il rischio concreto di effetti del tutto contrari, e di una punizione ancora più severa. Caduta ogni speranza di salvezza, il professor B** ebbe una crisi di pianto superiore ad ogni rosea aspettativa. Lacrime calde e fredde sgusciarono dagli occhi vitrei del professore in tale abbondanza da inumidire l’aria e riscuotere Lei che riprese a farsi intendere.
La Terza: oggi è umido, speriamo bene per i miei reumatismi, disse mentre erano alle prese con un bel mucchio di broccoli da pulire; la Seconda sospirò felice: sono contenta che ti sia convinta che è quella l’unica soluzione possibile, non resta che passare all’azione; la Terza: sì mi hai convinta, d’altronde non è colpa nostra se al mondo c’è ancora gente così maldestra; la Prima: fosse stato per me l’avrei volentieri schiacciato come un ragno (e serrò i denti rumorosamente); la Terza: mia cara non tutti meritano la morte, devi ancora crescere, sei ancora una bambina; la Seconda: e pensa che ci sono ancora persone adulte per le quali la morte è il peggiore dei mali o delle vendette (e scoppiò a ridere); la Terza: già che tristezza! passi se a pensarlo è un giovane baldanzoso con mille progetti, ma che lo pensi un uomo adulto, piagnucolando davanti allo spettro della morte, è così ridicolo, e penoso; la Seconda: e vederli ogni giorno acconciati come se la cosa non li riguardasse, è disgustoso; la Prima: ma siete sicure che la punizione funzionerà?; la Seconda: puoi starne certa, ne uscirà pazzo!; la Terza: che impudenza! pretendere un’assoluzione dopo quello che ha combinato. Impossibile! ma che pensa che basta osservare i dieci comandamenti per essere assolti? che sfacciataggine!; la Prima: già! tutto quel tempo davanti ad uno specchio, a scegliere la cravatta, il fazzoletto per il taschino, le bretelle, mentre fuori la guerra rimbomba; la Terza: fingeva che per lui la guerra non ci fosse, così altezzoso e fiero; la Seconda: così orrendamente distaccato direi, l’avrei macinato con le mie mani per farci dell’olio; la Terza: non ti scaldare amica mia, sarebbe stato volgare olio di colza; la Prima: indigesto, uh! com’è indigesto l’olio di colza; la Seconda: non gli basterà una vita intera per capire com’è che si fa, come si guarda, come si tocca, come si muove il bacino; la Terza: infatti, noi gli daremo molto di più di una vita sola; la Prima: e poi dovrà pure imparare qualcosa di più serio, di più sostanzioso, piuttosto che avere paura della morte e intanto azzerare la vita; la Terza: sacrosante parole fanciulla, stai venendo su proprio bene. Con labbra serrate intonarono un coro di mugugni intanto che pelavano altri broccoli, e una montagna di funghi attendeva il turno. Nelle more, il professore pencolava tremebondo dalle loro parole di verità per apprendere del suo miserevole destino, perché s’era convinto che tale sarebbe stato, ma quelle non parevano intenzionate a rimettersi a dialogare, lasciando tutti i presenti col fiato sospeso nel bel mezzo di un segreto ben custodito. Decise allora il professor B** di tentare il tutto per tutto non avendo nulla da perdere: decise di informarle nei dettagli, o anche sommariamente – secondo come si sarebbero messe le cose – della vita irreprensibile che fino a quel momento aveva condotto, perché Lei andava resa edotta della sua buona coscienza, e doveva prendere atto di aver preso un granchio a volerlo punire con una pena sconosciuta ma di certo terribile, anzi più terribile della morte a quanto sembrava. D’altronde, s’era detto, erano donne e quindi assai più degli uomini portate a prendere mastodontici granchi, gli esempi della moglie e delle figlie erano sotto i suoi occhi, e ogni volta era riuscito a metterle di fronte all’evidente errore, a ridurle al silenzio, il silenzio del colpevole: ma che fatica! Si sistemò nel suo abito come meglio poteva, impettì, riavviò i capelli, e parlò.

Michele Mocciola

(continua)

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