L’Italia al capolinea istituzionale

Il collasso ha origini lontane


Il fallimento organizzativo del Belpaese è sotto gli occhi di chi ha voglia – tuttora – di guardare, senza infingimenti, abbandonato ogni spirito di appartenenza ad una delle tante caste raccogliticce che pullulano nelle fitte reti interconnesse.
Nulla era stato realmente predisposto, preparato, e organizzato, appunto, in vista di, ed il prevedibile si è trasformato nell’imprevisto eccezionale, nella situazione contingente che impone uno stato d’emergenza con tutto quel che ne segue in termini di pioggia di provvedimenti normativi di secondo e terzo grado, scelte settimanali o giornaliere, affastellamento di regole, seguite a ruota da eccezioni, deroghe, precisazioni.
In realtà, il problema nasce da molto lontano, dal linguaggio addirittura che conia il costume di una nazione o ne è coniato, non fa molta differenza, in ogni caso lo evidenzia: a saperlo guardare, come sopra.
Tratto italianissimo da cui questa Rivista ha messo in guardia ben prima della pandemia, invitando, con l’articolo Ssssssst: parlano I Sorci Verdi, a un uso linguistico composto sulla realtà e non sull’ipotetico.
Oggi assistiamo ad un’ulteriore evoluzione di quel costume deleterio e dannoso: il reale è spacciato, sotto il profilo organizzativo, per irreale, ma quando quella realtà s’impone con la forza inequivocabile della pandemia, di diritto (dpcm, ordinanze regionali, ecc.) si trasforma per assumere le spoglie sgargianti dell’imprevisto puro, e l’improvvisazione scenica, quella deprivata dello studio lungo e faticoso, diventa padrona del campo.


Michele Mocciola

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