Un ricordo improvvisato di un grande narratore

A ottanta anni dalla sua morte (1939)

Il poeta Gino Rago al Caffè San Marco di Trieste.

«Conceda Dio a tutti voi, a voi santi bevitori,
una morte lieve».

La mattina del 23 del mese di…
dell’anno 1939 cadde a terra di schianto

come Andreas
della leggenda del santo bevitore.
Era nel caffè Tournon,
dove aveva scritto per anni e bevuto calvados
fino a perdere il senno.
Non fu portato nella sagrestia della chiesa di Santa Teresa
ma all’ ospedale Necker.
Lo legarono con cinghie al letto
come l’ ultimo dei mendicanti.
E non ricevette nessuna cura.


Il 27 dello stesso mese morì,
il giorno 30 il funerale al cimitero Thiais,
nei sobborghi di Parigi.
Un messo di Otto d’ Asburgo

pretendente al trono d’Austria
elogiò in lui
«
Il- fedele- combattente- della-Imperial-Regia- Monarchia».
Un comunista gli rispose con rabbia
che il morto era stato «Joseph il rosso».
Un sacerdote cattolico benedisse la salma.
Tutti gli ebrei presenti furono offesi
dal fatto che un ebreo
che discendeva da generazioni di devoti ebrei
fosse costretto in una religione non sua.

Forse il morto fu contento dello schiamazzo
sulla sua tomba di periferia.
Era stato monarchico e rivoluzionario, ebreo e cattolico,
pagano e musulmano.
E bevitore (sebbene non santo).
Abitò da solo l’ aereo regno- di- non-dove
chiuso nella stanza del Bioscopio universale.

Un cavallo lipizzano alzò per un istante
la zampa destra in segno di commiato,
il lampadario cadde sui legni della sala del valzer,
Shearazade pianse.
La contessa W. della milleduesima notte
sgranò gli occhi dai riflessi di violette e miosotide.
E tutti i presenti se ne innamorarono.

Joseph Roth da allora è di tutti.

Gino Rago

Gino Rago nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Sue poesie sono presenti nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Poeti del Sud (EdiLazio, 2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016).  È nella Redazione de L’Ombra delle Parole. Collabora con la Rivista cartacea Il Mangiaparole.

Nota della Redazione: Questa poesia, a detta del suo Autore, è stata ispirata dalla lettura dell’articolo di Pavel Zelinskiy La morte simbolista di Joseph Roth, a p. 3 del n. 3 della Rivista, reperibile qui.

 

8 COMMENTI

  1. Finalmente, dopo svariati impedimenti d’ogni genere, sono nella condizione di esprimere pubblicamente alla Redazione de I Sorci Verdi la mia gratitudine piena per l’ospitalità concessa al mio ricordo improvvisato di Joseph Roth, nella ricorrenza dell’80° della sua morte.
    Anche altre fonti mi han dato spunti e spinte verso Joseph Roth e verso il suo canto della Finis Austriae. Ma la scintilla catalitica decisiva mi è giunta dal pezzo di finissima critica letteraria di Pavel Zelinskiy che ho scovato proprio in una memorabile per me pagina de I Sorci Verdi: una scrittura questa di Zelinskij che subito, alla prima lettura, a forma di scossa e di folgorazione, mi ha dato nettamente la sensazione di trovarmi di fronte a un evento letterario e linguistico senza precedenti per nitidezza espressiva e per arricchente scelta di stile, dove per stile intendo la lingua usata e il tono.
    Rinnovo la mia gratitudine a Pavel Zelinskij e a tutta la Redazione de I Sorci Verdi.
    Gino Rago

  2. Gino Rago inimitabile nella sua originalità. Questa è una modalità di trasmettere al futuro la storia di ieri.
    La poesia che si racconta, versi singolari, che lascia al lettore il gusto di chiedersi, ma è una storia vera. Fa nascere la curiosità di approfondimento.
    Complimenti a Gino Rago!

  3. ‘Il Vuoto non è il Nulla’ è un mio modo di dire ‘grazie’
    – alla Redazione de I Sorci Verdi
    – a Francesca
    – a Lidia
    – a tutte/tutti coloro che pur senza postare i loro commenti su questa pagina han reso (in forma di e-mail o in altre forme) testimonianze a favore del ricordo improvvisato di J. Roth.

    Affermo che con Giorgio Linguaglossa, ( che precisa nel suo intervento le 3 parole chiave “Nuova”,” Ontologia”, “Estetica” del nuovo corso della mia ricerca poetica che dura da almeno un lustro), sto condividendo la nuova avventura di poesia che si misuri con i fattori T (tempo), S (spazio), V (vuoto), M (memoria), metafora tridimensionale, ecc. volti verso nuovi paradigmi estetici …

    Gino Rago
    Il Vuoto non è il Nulla
    (Pensando a Pavel Zelinskij)

    Preferiva parlare a se stesso, temeva l’altrui sordità.
    «L’intenzione dello Spirito Santo è come al cielo si vada,
    non come vada il cielo».
    […]
    A Pisa tutti tremarono.
    Il poeta ama la nascita imperfetta delle cose. Come fu.
    In principio…
    Il poeta lo sa.
    È nei primissimi istanti dell’universo materiale.
    Non c’è lo spazio, non c’è il Tempo,
    non si può vedere nulla,
    perché per vedere ci vogliono i fotoni,
    ma in principio i fotoni non ci sono ancora.
    Né si può ‘stare, perché per stare ci vuole uno Spazio;
    nessuno può ‘attendere (o ‘aspettare’),
    perché per poter attendere o aspettare ci vuole un Tempo.
    […]
    In principio, nei primissimi istanti… è solo il Vuoto.
    Il Vuoto, soltanto che non è il Nulla.
    È un Vuoto zeppo di cose.
    È come il numero zero.
    Lo zero che contiene tutti i numeri.
    I negativi e positivi che sommati giungono allo zero.
    In Principio…
    Nei primissimi istanti il Vuoto. E il Silenzio.
    Ma il silenzio che contiene tutti i suoni.
    Il silenzio di Cage.
    E l’universo della materia?
    Viene dalla rottura della perfezione.
    […]
    È stata l’imperfezione a produrre questa meraviglia?
    Sì. Il Tutto viene dalla imperfezione.
    Ma i paradigmi nuovi faticano a lungo prima d’essere accettati.
    Finché Luce non si stacchi dalla materia opaca,
    ma se la luce si distacca esistono i fotoni, il moto, l’attrito,
    il tempo e lo spazio, l’uomo che scrive la vita,
    la poesia che si espande dal vuoto che fluttua.

    gr

    *da “Gino Rago, I Platani sul Tevere diventano betulle” (di prox pubblicazione)

  4. Caro Gino, grazie di queste primizie.Attendiamo di leggere “I Platani sul Tevere diventano betulle” per toccare con mano le nuove tappe del tuo percorso poetico. Ha ragione tu! La poesia non può che originarsi ed espandersi “dal vuoto che fluttua”.

  5. Estraggo dalla mia e-mail queste meditazioni di Rossana Levati, cui esprimo la mia ammirazione per l’acuta capacità analitica con cui interpreta i versi dedicati a Joseph Roth, del Liceo Classico ‘Vittorio Alfieri’ di Asti, perché sento ingiusto che questo esercizio di ermeneutica all’insegna d’una fine civiltà letteraria dorma nello scantinato della mia posta elettronica.

    “Impadronirsi di un’opera d’arte, di una creazione artistica, è operazione delicata e rischiosa: tutti credono di poterlo fare ma qualcosa sfugge sempre nelle costruzioni letterarie, che risiedono in un altrove, in un non-luogo troppo distante dalla vita reale e pesante cui accedono gli uomini comuni.

    Forse è per questo, come Gino Rago mette in luce nella sua rievocazione della morte di J. Roth, che intorno al corpo dello scrittore, alla sua morte, inizia un faticoso processo di “appropriazione” tanto più paradossale se pensiamo che il vivo “non ricevette alcuna cura”.

    Così quel narratore legato alle cinghie del letto d’ospedale “come l’ultimo dei mendicanti” rievoca troppi autori, narratori, poeti, pittori, che hanno concluso, trattenuti dalle cinghie di contenzione, la loro vita nei manicomi, negli ospedali, marchiati come folli o malati, affetti da turbe psichiche che li rendevano, da vivi, reietti agli occhi degli altri, esclusi dal mondo del senso comune, dell’utile e del normale. Quello schianto con cui cade a terra non è forse il segno di un delirio legato all’alcool e ai suoi eccessi, ma il segno di un’altra verità attinta, sia pure per un attimo e folgorante di per sé, nella mente dell’autore: comporre un’opera d’arte, sia pur con l’ausilio del calvados, come altri hanno fatto con altre sostanze (da Baudelaire ad Allen Ginsberg) , è di per se’ stesso un gesto folle e anormale, solo in parte sostenuto dall’alcool, dall’oppio, dal peyote cui gli autori nominati hanno fatto ricorso.

    Certo appaiono ridicoli i tentativi di etichettare Roth come comunista, monarchico, ebreo, cattolico, pagano o musulmano che si consumano intorno a lui: e se il corpo è oggetto di un assurdo “schiamazzo”, non si sa quanto gradito al morto, certamente inutile, è ancora nella periferia della città che viene confinata la sua tomba, lontano dal mondo perbene.

    Tuttavia al mondo dell’artista il degno omaggio può giungere solo dall’arte, non da quegli uomini in carne ed ossa che riportano tutto alle coordinate storiche gravi, alla materialità delle etichette: se il mondo del narratore è fatto di nostalgia, di rimpianto, di struggimento per una realtà fallace, mutevole, angosciante, l’arte è pur sempre un “aereo regno di non-dove”, un luogo e nessun luogo dove confluiscono il Bene e il Male, il Sogno e l’Incubo, spesso scambiandosi di segno. Solo lì la morte ritorna ad essere “lieve” e non pesante come nella realtà terrena: e può accadere che il cavallo lipizzano alzi la zampa in segno di rispetto, quasi in volo, ma anche ciò che non trova altra ragione di esistere se non nella propria bellezza, come il lampadario della sala da valzer, cada al suolo schiantandosi su una realtà banale che non può sostenere i sogni e neppure l’arte. Il compianto migliore, in un certo senso il più autentico nonostante provenga da un personaggio fittizio, è ancora il dolore di Shearazade che dalle “Mille e una notte” sembra trasmettere il testimone alla sua erede, la contessa W. della “Milleduesima notte”, l’ultimo romanzo di Roth in cui tutti inseguono sogni illusori nei quali si consuma la loro vita, consapevole o inconsapevole che sia. Ma al di là delle sconfitte dei singoli, è ancora proprio nell’arte che si conserva l’unica cosa bella, in grado di alleviare la pesantezza del vivere: quello sguardo spalancato della contessa dove si colgono i barlumi e i riflessi di violette e miosotide. Quanto basta per far innamorare i presenti e rendere Roth un bene di tutti, come la sua opera, e non più il possesso privato di politici o sacerdoti.

    Rossana Levati,
    Asti, 23 gennaio 2018

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