Quando c’era la rivoluzione

'La donna della domenica' tra le metamorfosi della società italiana

Era il 1972. Le mogli portavano democraticamente il cognome del marito e lo accompagnavano dovunque per lui fosse opportuno fissare la residenza (art. 143 del codice civile all’epoca vigente), mentre la riforma del diritto di famiglia tardava ad affermarsi nelle aule parlamentari (occorrerà attendere il 1975). Faticavano nel percorso le nuove idee, i nuovi modelli di convivenza, le nuove e diverse rappresentazioni degli uomini e delle donne, eppure grandi ardori bruciavano in silenzio, nell’attesa dell’esplosione finale; alcuni di questi, cruenti, serpeggiavano lungo la dorsale. Un singolare compromesso tra forze laiche e forze cattoliche aveva da tempo partorito (nel 1970) due leggi indispensabili per alleggerire la cappa di una democrazia ancora fondata sopra capisaldi religiosi fattisi norme civili, e sull’idea di un potere che una volta dato non torna indietro: la legge sul divorzio (legge n. 898) e la legge istitutiva del referendum abrogativo (legge n. 352). Niente a che fare con reali spinte innovative, quanto l’esito di un accordo ben preciso: si vara la legge sul divorzio e la si abroga con il voto popolare, quello che legittima oltre ogni misura. Il popolo italiano, sconosciuto ai maggiorenti dell’epoca, avrebbe liquidato in fretta, con il rosario in mano, l’azzardo di un nuova società fondata sul matrimonio dissolubile (forse così si pensava), ma così non fu, le cose sarebbero andate diversamente, più tardi, nel 1974. Nel frattempo, ancora nel 1972, incidenti di percorso ritardavano il contrattacco dei cattolici.
Appena prima, nel dicembre 1971, era salito sull’alto Colle, votato dal centro come dalla destra (e quella dell’epoca era vera destra ancora poco riscattata dal passato prossimo), Giovanni Leone la cui storia presidenziale sarà negli anni ricca di aneddoti e vicende, sfiorandolo il primo scandalo pubblico, (Lockheed), che non lesinerà ad ex ministri il giudizio penale davanti alla Corte Costituzionale. Un presidente della repubblica che, raccontato a modo suo da Camilla Cederna, è stato e rimane giurista di indiscusso valore. Fatto sta che le turbolenze si avvertono chiare a disturbare pregressi accordi politici, gli equilibri si spostano verso il centro-destra e ne seguono brevi e infruttuosi tentativi di nuovi governi, di nomi noti: Colombo, Andreotti. Non rimane altro da fare per il neo-presidente Leone che sciogliere le Camere e si va, rissosi, ad elezioni politiche anticipate. Sfuma per ora il referendum sul divorzio. La mina è innescata, la denunciata svolta a destra produce i suoi frutti, avvisaglie di scontri si hanno già nei primi mesi (motivo i colonnelli greci), e il 3 marzo sulla scena esordisce il terrorismo brigatista con un primo sequestro. Siamo solo agli inizi di quei giorni insanguinati del 1972 che coloreranno in opposto modo l’Italia appena appena laica nei suoi diritti. Le prime file vanno agli scontri di piazza (ci saranno morti e feriti), Valpreda, tuttora in carcere per la strage di Piazza Fontana, è il vessillo dell’oscurantismo di destra e il commissario Calabresi è il nemico: le retroguardie sono pronte per l’inizio di una lunga stagione dai lunghi coltelli. Ad arroventare il clima interviene, insospettata, inaspettata, la morte di Giangiacomo Feltrinelli (14 marzo), militanti e intellettuali evocano l’omicidio politico, ma le successive azioni giudiziarie e di polizia sono dirette a scovare il nucleo di forze eversive rivoluzionarie (di sinistra) e i suoi collegamenti internazionali, intanto che un ammiraglio di potere spiega pubblicamente le sue preferenze per la destra politica, e il pubblico ministero Sossi chiede ed ottiene pene elevate per gruppi estremisti della sinistra. Siamo agli sgoccioli, e, superate le elezioni politiche, il 17 maggio viene ucciso il commissario Calabresi, e poco dopo, il 31 maggio, tre carabinieri muoiono nell’imboscata ordita ad arte: la strage di Peteano. In tanto sangue e tanto odio c’è poco da stare allegri, e tanto meno ce n’è di pensare a storie individuali di sesso diverso, fuori siamo all’apertura di una guerra di tifoserie politiche contrapposte dove l’individuo interessa ben poco, anche quando giace sul selciato.
Non è così.
La rivoluzione se deve essere sia globale, totalizzante, eversiva dell’ordine come dell’individuo costituito, la guerra sia anche contro una morale stantia: che tutti possano vivere alla luce del giorno. In tal senso avranno inconsapevolmente ragionato i promotori del neonato FUORI, rumorosamente manifestando nell’aprile 1972 davanti ai congressisti sessuologi intenti a dimostrare l’anormalità dell’omosessualità. L’Italia si scopriva anche omosessuale, si organizzava il FUORI, antesignano di ogni successiva associazione pro domo gay, e usciva il primo numero dell’associazione: l’ultimo atto si compiva nel caos rivoluzionario.
Nel 1972 la classe del ’59 compiva tredici anni e s’apprestava ad entrare nelle turbolenze adolescenziali accolta dai mortaretti riepilogati: una bella accoglienza, non c’è che dire. In questi spostamenti di massa, con le dovute definizioni di posizione, le necessarie contrapposizioni, le consequenziali aggregazioni per affinità, non persero l’occasione i sindacati più rappresentativi (CGIL, CISL, UIL) per avviare (24 luglio) quella federazione delle confederazioni fulcro portante di tutte le successive contrattazioni sindacali e diventare parte sociale futura, legittimata nelle consultazioni politiche. Ma bombe contro i lavoratori e i sindacati scoppieranno e saranno innescate sui treni che portano (21 ottobre) ad una manifestazione nazionale per il mezzogiorno, perché sia chiaro che la guerra è di tutti contro tutti. E non è finita: il governo Andreotti affonda sotto i colpi della sinistra democristiana, Fanfani è il nuovo segretario e Berlinguer si appresta ad inaugurare un nuovo corso: il compromesso storico.
Anche la magistratura inverte la marcia investigativa e, cambiando rotta, passa dalle accuse ai rappresentanti della sinistra (Valpreda) e dall’archiviazione del procedimento per la morte dell’anarchico Pinelli (procedimento a carico di Calabresi), alle accuse ai rappresentanti della destra: Almirante è indagato dalla Procura di Milano (28 giugno) per la ricostituzione del partito fascista, Freda e Ventura sono incriminati per la strage di Piazza Fontana (20 ottobre), e Valpreda, il 14 novembre, riacquista la libertà in virtù di una recente legge, tutta per lui. Gli italiani vivono nell’incertezza economica che esploderà con l’austerità del 1973, sanno poco dei loro diritti costituzionali, alcuni inattuati, e non sono neppure sfiorati dalla febbre consumistica odierna, salde restando le tradizioni famigliari come personali. C’è ancora una misura tant’è che – sorridiamo – uomini di governo (La Malfa) possono bloccare la commercializzazione del televisore a colori (partirà soltanto nel 1977), spesa ritenuta voluttuaria e perciò disdicevole.
Questa era l’Italia del 1972, in pieno conflitto di ideali e di scelte, muovendosi entrambi come onde di piena, alte, altissime: questa è stata la nostra rivoluzione. In questa Italia, nel 1972, Fruttero&Lucentini pubblicavano il loro primo grande romanzo: La donna della domenica.
Il rischio di spifferare dettagli di una storia colorata del giallo letterario induce a tacerne la trama, ma dell’affresco intorno occorre riferire. Ecco a voi lettori, Torino, la città industriale per eccellenza, ritratta con toni indimenticabili, con implacabile ironia: il romanzo è l’occhio indiscreto tra mura di notabili fino a quel momento esclusi dalla voracità popolare. E d’altronde si era o no in piena rivoluzione? Una leziosa diatriba tra borghesi ben messi sul modo di pronunciare Boston, in inizio d’opera (p. 48), traccia da subito l’aria di scherno che tirerà via via, ma non è invettiva fine a sé quella che guida le abili letterarie mani di Fruttero&Lucentini, quanto piuttosto un sinuoso percorso di conoscenza umana attraverso vezzi, abitudini, complicità, di una classe sociale medio alta, a quei tempi nell’occhio di un ciclone sovversivo pronto a battere la cassa di una resa dei conti, un po’ in ritardo sulla storia. La coppia letteraria, ad oggi insuperata, seziona con crudeltà priva di cattiveria: ognuno è pur sempre degno rappresentante della congrega umana col suo profilo personale, intimo, individuale che lo emenda dal resto. La posizione sociale diventa ridicola, è vero, ma lo sguardo umano tutto rende perdonabile. Ed è così che in ogni personaggio c’è posto per un ampio sguardo d’amore, che sia per un’altra persona o per una posizione sociale personale o per un terreno è fatto del tutto irrilevante, alla coppia poco importa: tutti sono immancabilmente rispettati. E nell’insondabile homo sapiens c’è il relativismo dei comportamenti, degli atteggiamenti e dei pensieri, e il vizio (razzismo, vendetta, ipocrisia o che altro sia) può annidarsi ovunque. La rivoluzione di Fruttero&Lucentini era semplicemente questa: una straordinaria lezione di umanità imprigionata nella finzione del giallo letterario. Spetta al lettore riscattarla.
Potrei fermarmi qui, a conclusione, perché la bellezza del libro impone che lo si legga, e non che se ne parli. Eppure, di un particolare bisogna dire.
Tra le tante storie intrecciate i narratori raccontano di una relazione affettivo/sentimentale (e anche sessuale seppure senza inutili dettagli al riguardo) tra due ragazzi, e questo inserto è davvero rivoluzionario, a stare con gli occhi bene aperti, per due motivi: uno più immediato, forse superficiale, il secondo più scaltro.
Il primo. Nel lontano 1972, appena un’aurora per siffatte rivendicazioni affettive omo, due autorevoli traduttori quali erano Fruttero&Lucentini, ottimamente inseriti nell’ambiente letterario torinese e milanese dell’epoca (ed era, credetemi, un’epoca di grossi calibri), curatori di collane editoriali e quant’altro, questi due signori prossimi o oltre la cinquantina, all’esordio come scrittori (e che esordio!), rendevano pubblica e manifesta, e nella naturalezza dello sviluppo narrativo, la relazione tra due ragazzi. Beh!, ammettiamolo, era un vero e proprio evento, essendo ancora decisamente lontani  dalla non meno rivoluzionaria prospettiva di Sodomie in corpo 11, di Aldo Busi, dove l’innaturale rapporto sessuale, lungo quanto le pagine del libro, è addirittura con il corpo tipografico, riducendosi il resto dei rapporti sessuali, quelli tra maschi, a fatto di contorno, sfondo scenico, di nessun vero rilievo.
Il secondo. L’opzione di Fruttero&Lucentini è un fatto rivoluzionario non tanto per la rappresentazione letteraria del possibile, del reale possibile nascosto dietro l’angolo o nell’appartamento di fianco, quanto per l’inserimento in un romanzo giallo dove, com’è naturale, la trama la fa da padrona; e non basta, perché quella relazione si affianca alle numerose altre, e non poco complesse, tra uomini e donne. Ecco, quindi, che quella diversa relazione, radicalmente inconcepibile ai tempi del romanzo, è rassegnata a noi lettori, anzi incastrata, nella dimensione più ordinaria ma non insignificante, più normale ma non marginale, nell’universo delle possibili relazioni; ci viene consegnata con lineare semplicità, ancora oggi che sembriamo godere di nuovi assetti sociali, legislativi, famigliari. È una storia d’amore senza aggettivazioni che si dipana nella consuetudine dei silenzi, delle riserve mentali, delle baruffe chiozzotte, dei sentimenti espressi, o poco espressi, o per nulla espressi. E tanto è regolare quella unione che la protagonista Anna Carla, in procinto di invischiarsi in una sua storia sentimentale, mentre aveva visto nel legame scandaloso del suo intelligente amico (Massimo Campi) un sintomo di aristocratica originalità, è costretta a ricredersi di fronte agli eventi: Poveretti, pensò. Una strada così innaturale, un giro così tortuoso, per arrivare a un epilogo così atrocemente comune.
Quindi, una storia comune, dall’esterno, inizialmente pensata diversa, originale, innaturale e tortuosa, e una riflessione finale in due righe che vale pile di articoli saggi libri monumenti nazionali sulla omosessualità, arrabattati tutti a giustapporre psicologie e piscologismi sopra un fenomeno che, quando non vuole presentarsi forzatamente come alternativo, si risolve in una bieca ordinarietà.
Dall’interno, soprattutto dall’interno della letteratura di Fruttero&Lucentini, una relazione come tante altre che non costringe gli autori né al gergo di strada, né al politically correct, anzi li allontana da ogni definizione classificatoria fino a pagina 315 (il libro consta, nella edizione Oscar Mondandori – classici moderni – di n. 422 pagine) quando, interrotta la relazione, rotto il sogno, spezzato il cuore, di quell’interno non resta nulla, mentre l’esterno può tranquillamente adagiarsi sulle rinomate vecchie definizioni: – Un’amicizia omosessuale, suppongo. Un’operazione, quella di Fruttero&Lucentini, innovativa oltre ogni pensamento, e perciò rivoluzionaria perché fuori da ogni possibile conformismo; un’operazione mirabile, fortemente umana, e alla fine, commovente. Valgano per tutte le pagine introduttive della storia d’amore inusuale (p. 88 e seguenti), che invitano a scoprire la liason di Massimo e Lello col garbo di colui che si appresta a sollevare adagio un lenzuolo, sapendo di trovarvi sotto due innamorati.
Michele Mocciola
 
I dati storici e cronologici sono stati tratti dal sito www.cronologia.leonardo.it

LASCIA UN COMMENTO