L’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio

Allo stato delle cose c’è poco da dire, visto che la narrativa italiana resta al palo di una scrittura che non entusiasma e non trascolora; una scrittura – della narrativa italiana – che, soprattutto, non si mostra deficitaria, e perennemente in debito, verso una realtà troppo arcaica e misteriosa per essere compiutamente raccontata. E L’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio, pubblicato da Einaudi, non è un’eccezione.
Si resta sempre lì, nella stretta dimensione famigliare di madri assenti, padri indifferenti o violenti, piccoli e grandi traumi, affetti dispersi se non inesistenti, con il poco condimento di qualche parola in prestito dagli usi dialettali. Gli ambienti sono tristi e freddi (sia meteorologicamente che emotivamente), le descrizioni tanto minuziose, le dimensioni psicologiche una lunga linea retta. Il linguaggio della scrittrice è educato, sobrio, corretto, e certamente non banale, ma ce n’è per diventare quel dio barbaro e precipitosamente oracolare cui si ubbidisce (G. Manganelli, La letteratura come menzogna, Adelphi). Quel linguaggio non è mai esso stesso costruttore di trame, bensì puro nuncius che riferisce, in telecronaca, storie che, alla meglio, diventano accanitamente ordinarie. E quando manca questo linguaggio, asse portante di ogni letteratura, al centro restano i mille particolari che inondano la scena per riempire un vuoto sempre più incolmabile. In questo tipo di narrativa nessun fatto esiste realmente, ed ogni cosa è solo e soltanto raccontata.
Si piange, spesso, ma non ci sono vendette serie, concrete; si soffre senza essere veramente buoni; il bene e il male – Dio e Satana – svaniscono nel nulla soporifero delle psicologie individuali; soltanto gli eventi si alternano a destare viva l’attenzione del lettore. Bisogna pur sapere come va a finire!
Non basta l’etnografia di un luogo e di un contesto umano (regionale) a rendere il fascino attrattivo di un mondo tra i mondi, quando l’ironia è stata esiliata a tempo indeterminato. Non si tratta né di far ridere, né di svilire, ma di sovraintendere alle azioni umane senza esserne parti, protagonisti e complici: l’ironia viene da sé.
L’Arminuta resta lì, nel solco di una narrazione stinta, con qualche simpatica evocazione linguistica di una regione tra le altre, che rimane, però, ignota al lettore.

Da abruzzese ad abruzzese.


Michele Mocciola

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