Il primo giorno di pensione (terza ed ultima parte)

- racconto -

La I e la II parte del racconto sono qui http://www.isorciverdi.eu/2018/03/26/il-primo-giorno-di-pensione/

Signore, disse tossendo, indeciso sulla e, sono disposto a dare qualunque spiegazione vorrete, certo della mia coscienza pulita, del mio amore famigliare, della mia onestà lavorativa. Un esordio efficace, è indubbio: gli energumeni applaudirono convinti. Signore, riprese il professore, più deciso ora sulla stessa e, ignoro il motivo della mia presenza in questo posto ameno ma ce ne sarà una valida ragione, ho fiducia nelle vostre scelte; mi sento un condannato a morte eppure nulla posso rimproverarmi, se ci sono delle accuse contro di me siano più esplicite, in ogni caso, avendo estrema e incondizionata fiducia in voi, signore, ripercorrerò passo passo la mia vita onde verificare eventuali macchie, e se ci saranno sarò il primo a chiedere la dovuta punizione. Sono nato il nel Comune di località x alle ore y; la mia famiglia, già composta da cinque persone, mi accolse con gioia: l’unico maschio dopo tre femmine, ed ero destinato a protrarre il cognome paterno; ho avuto fin dalla nascita un’enorme responsabilità affrontata con dedizione e diligenza, senza le dovute ricompense: ho avuto a mia volta tre figlie femmine e nessun maschio e il mio cognome perirà con me (sospirò di dolore). Ho studiato sodo, lavorato sodo, mi sono distinto per abnegazione, capacità di sacrificio; mi sono sposato all’età giusta non facendo mancare nulla alla mia famiglia. Credo di poter dire senza tema di smentita che sono stato un bonus pater familias (il latino ha sempre facile presa). Ammetto qualche baruffa con la signora moglie, qualche intransigenza di troppo con le figlie, roba di ordinaria quotidianità, ma ciò ho fatto sempre con affetto, per indirizzarle, educarle ai valori che a mia volta ho ricevuto. Resta il rimpianto di una prole senza maschi. Converrete con me che con un figlio maschio è tutta un’altra cosa; i maschi sono coerenti, sanno quello che vogliono, non hanno le loro cose mensili, non sono volubili, umorali. Noi maschi siamo più equilibrati, occorre ammetterlo, parliamo di meno, soppesiamo, siamo in grado di conciliare, ricorriamo alla guerra nei casi estremi. Fosse per voi donne, con rispetto parlando, ci sarebbe sempre da menar le mani. Le donne non sono adatte a certi posti di comando, si lasciano intrappolare dai sentimentalismi, dalle commozioni, invece noi maschi sappiamo tenerle dentro certe cose, stringendo i denti e i pugni. Però senza donne come farebbe il mondo! sono la nostra luce, sono la bellezza; se non ci fossero occorrerebbe inventarle: dico bene? E le guardò, convinto di avere colpito al cuore.

Lei sbadigliò sonoramente, e ciascuna testa si girò da un’altra parte. La lumacona nel frattempo aveva accelerato la masticazione puntando decisamente verso il basso. Lavorava di gran lena l’animale, senza coerenza; percorreva il corpo mangiucchiando qui e lì, risultandone quel corpo orrendamente straziato, eppure integro nei contorni. Erano spariti cuore, occhi, un capezzolo, metà dei capelli, l’ombelico, ma intatti erano gli arti, ad eccezione di un piede di cui aveva divorato letteralmente quattro dita. Erano spariti anche una costola e un quarto di polmone. Eppure la sua famelica espressione non diceva di una sazietà raggiunta anzi prefigurava il peggio, quel ‘peggio’ che soltanto un uomo può temere. La lumaca puntò verso il basso e il professore smorfiò le labbra, coprendo il terrore che pure l’avvolgeva e atteggiandosi superiore.
Sapete, disse la Terza ricomponendosi, una volta ho conosciuto un maschio; la Prima: uno solo?, e rideva; la Seconda: smettila sciocca e ascolta che può tornarti utile; la Terza: dicevo, ho conosciuto un maschio che si doleva dell’ingratitudine della moglie nonostante durante la vita non le fosse mancato niente, e ogni desiderio suo era stato soddisfatto, e si disperava perché di punto in bianco l’aveva lasciato, e dicendolo piangeva appoggiandosi a me, e più piangeva più si appoggiava, e prima con la testa, poi con le mani, palpandomi dove più gli aggradava; la Seconda: il solito porco; la Terza: e chiedeva a me di spiegargli il fondamento di tanta ingratitudine femminile; al che, realmente indispettita io da siffatta malacreanza, l’ho allontanato dicendogli ‘dovresti ringraziarla, lo ha fatto per il tuo bene, pensa! se non ti avesse lasciato non avresti potuto mai avere l’onorevole scusa per palparmi a tuo piacimento; che vuoi mio caro, ti ha sollevato da un grande senso di colpa’; la Prima: e lui?; la Terza: lui prima mi ha guardato, e si vedeva che non aveva capito molto bene il senso, poi mi ha chiesto ‘ma non ti piaccio?’, io sono diventata livida di rabbia, ma livida livida, e così livida che …; la Prima: che? che?; la Terza: semplice, molto semplice, eravamo su un bel crostone di roccia con sotto il mare, mi aveva portato lì a fare il romantico, ed in effetti era bello di lassù il blu dell’acqua condito con la spuma bianca delle onde, mi è bastato spingerlo e farlo volare di sotto, si sono sentite le grida che rimbalzavano insieme a lui, ho girato i tacchi e me ne sono andata. Evviva! gridarono le altre due. Il professor B** non disse nulla e non diede a vedere il suo pensiero. La Seconda riprese il discorso: pensa che io invece una volta ero al supermercato, presa su dalle mie cose e fischiettavo sbirciando lo scatolame, le ali di pollo, i sughi pronti, le interiora soffritte, insomma, come si suol dire, mi facevo i cosi miei; la Terza: che linguaggio, come ti sei ridotta; la Seconda la ignorò e proseguì: all’epoca non è che avessi chissà che grilli per la testa, e spingevo il mio carrello sgangherato che andava di qui e di lì e io che cercavo di raddrizzarlo, e più lo riempivo di porcherie e più faticavo a spingere quell’aggeggio e ogni passo era una maledizione, un’imprecazione, un insulto; comunque sia, arrivo alle casse pago e vado oltre quando mi si avvicina un omone alto e ben piantato e niente male e mi fa ‘signora la osservo da un po’ di tempo’, io mi metto a ridere e gli dico ‘ha fatto bene, sono proprio una bella gnocca’, quello mi appoggia la mano nerboruta sulla spalla e fa: ‘mi segua’ con fare perentorio e io lo seguo perché se un uomo me lo chiede penso che avrà delle buone ragioni sperando che siano uguali alle mie; mi porta in una stanza e mi fa ‘la devo perquisire’, io che non ho niente da nascondere nemmeno le mutande, gli dico ‘va bene faccia pure’ quello mi guarda stranito e inizia timidamente a toccarmi alla rinfusa, dove capitava insomma, e pareva addirittura che avesse paura ma non capivo di cosa visto che me ne stavo tutta buonina a pensare agli acquisti e a quello che di sicuro avevo dimenticato; intanto il signore procede con maggiore sicumera, approfondisce, si accanisce sopra e sotto e vedevo che si spogliava mentre faceva il suo dovere ma io restavo imperterrita e subivo, e lui ci dava dentro con le mani e poi si toccava e così via e sentivo anche dei mugugni, ansimazioni, sospironi, ma a me sinceramente poco importava, e lo lasciavo fare, in fondo a me non dava alcun fastidio; a un certo punto quello vedendomi serafica s’inalbera e protesta che non s’è mai vista una donna che non reagisce, e sbraita e borbotta qualche sconcezza verso di me, e che la mia era una vera rappresaglia verso gli uomini, e intanto che fa la sua bella sfuriata noto che in effetti era rimasto moscio per tutto il tempo: non gli avevo fatto alcun effetto, sebbene fossi – lo ripeto – una gnocca mica da buttare, e a vedermi che lo guardavo lì tra le cosce con un sorrisino un po’ perfido tra le labbra, diventa rosso come un peperone e mi dice: ‘lei è un ladra adesso la faccio arrestare’, gli faccio presente di stare calmo con le parole e che a scrocco non avevo preso un bel niente, lui di rimando mi butta nel carrello un coltello che teneva alla cintola e sghignazzando dice: ‘e questo non è un oggetto che lei non ha pagato?’; la Prima: che vigliacco! e tu?; la Seconda: ho preso il coltello, gliel’ho infilato fino all’impugnatura nella pancia e gli ho detto: ‘s’è sbagliato, nel mio carrello non c’è nessun coltello, piuttosto ne vedo uno nella sua pancia lardosa’ e me ne sono andata. Le altre due iniziano a ridere a crepapelle con le lacrime agli occhi mentre il professor B** sbiancava nel volto segnato, e mentre la Prima si apprestava a dire la sua storiella si sentì un gran grugnito, e uno schiocco di lingua soddisfatta, le tre donne si voltarono per assistere alla lumacona che aveva lasciato al posto delle intimità dell’uomo disegnato un gran buco, e sazia se ne tornava sui suoi passi. La Prima non fece in tempo a dire invece io una volta, che fu interrotta dalle altre due in preda ad una inspiegabile agitazione delle teste, e ripetevano ossessive: è tempo è tempo, è giunto il tempo della sanzione. Il povero professor B**, appaurato, senza altri strumenti di persuasione, di fronte all’ineluttabilità di un giudizio senza colpe si segnò il petto con la croce redentrice, volse lo sguardo al cielo, biascicò tra sé una giaculatoria dell’infanzia, e si augurò una fine di subito, senza dolori intermedi.
Improvviso venne il vento dell’Apocalisse di cui parlano i libri sacri, urlava e tuonava contro l’umanità scellerata cui si coniugò la voce cattiva e cavernosa di Lei che, dimentica di ogni altra cosa, di ogni altro essere lì presente, ripeté: è tempo è tempo, è giunto il tempo della sanzione. Le mani scaraventarono via broccoli, funghi e il resto liberando il tavolo, laddove il corpo scosso da tremiti furiosi s’accasciava, e le sei pupille roteavano impazzite, e le bocche s’erano fatte larghe e mostruose, e la voce cambiò fisionomia assumendo i toni di una tragedia, insostenibile tanto era di sconquasso. E ripetevano, mentre le mani davano pugni sul tavolo e le gambe si muovevano come topi in gabbia prossimi alla morte: sanzione, sanzione, è tempo è tempo. La Seconda intonò: sia data sanzione all’uomo che offende e reclama e protesta e insiste e mai cede; e le altre ripetevano convinte e fiere: sia data, sia data; poi riprendeva la Seconda: sia data sanzione all’uomo che si finge inerme, incolpevole, vittima, che si presenta tronfio di successi, che ignora la vita per santificare la morte chiamandole entrambe al femminile, all’uomo che si nasconde, che si erge, che gonfia il petto, che sta sull’attenti, all’uomo che monta la donna e la chiama natura. Le altre: sia data, sia data. La Seconda: sia data sanzione all’uomo che sgobba e rinfaccia, che ama e non rammenta, che governa e schiaccia, che addolora e ride, che piange soltanto di fronte alla morte. Ed ancora: sia data, sia data. E poi tutte e tre insieme gridarono: e paghi il chiunque per i molti che ci sfuggono perché a conti fatti nessuno è innocente. Ripresero fiato per sputare un grido disumano che non finiva più, attorcigliato nell’eco formato nelle buie caverne di quel posto; gli energumeni abbandonarono il professor B** al centro e fuggirono piangendo, salvandosi dietro grosse rocce, chiudendosi le orecchie per non sentire le malvagità e gli insulti che quelle bocche sapevano dire. A un tratto il professor B**, mentre assisteva atterrito a tale manifestazione rimuginando sulle colpe insufflate dalla donna mostruosa, sentì dire: ma lì c’è un uomo. E vide il dito indice puntato esattamente contro di lui. Le tre teste lo guardavano, finalmente, e lo vedevano. Finalmente vedevano l’uomo al loro cospetto, e per loro, in quel momento, non era un bello spettacolo. Digrignarono i denti, si caricarono di rabbia e cattiveria, si trasformarono in tendini tesi, muscoli contratti, solchi sulla pelle, e in bile che scorre e in sangue che irrora e poi, poi, il professor B** vide le gambe della donna che scaraventavano il tavolo, e lei, la donna, il mostro orrendo, l’incubo con le sembianze del sogno di ciascun uomo, si erse grande e famelica e nello strepito indescrivibile dell’ugola che ululava oscenità, improperi, minacce, rancori, rabbia, la vide avvicinarsi e la sua paura fu tanta che neppure ebbe l’impudicizia di svenire godendo per la sua prima volta del coraggio di voler assistere alla propria mediocrità, mentre tremava, foglia, davanti al gigante in gonnella pronto all’annientamento. Era chiaro alfine, al professor B**, che la personalissima autodifesa si era rivelata cosa del tutto inutile, un inutile spreco di parole, preceduto da un ancor più inutile esame di coscienza alla ricerca di inesistenti colpe. Lì, in quell’antro maledetto, s’era celebrato il giudizio di un uomo senza colpa. Lì l’uomo per caso, quello che la donnaccia avida e malvagia aveva definito il chiunque, pagava per tutti, a dispetto di ogni singolarità; lui, l’integerrimo professor B**, pagava per altri, sconosciuti, sfuggiti alle maglie. Una concatenazione di coincidenze, eppure fatali, l’avevano ivi condotto, divenendo lui, l’uomo dabbene e assennato, il capro espiatorio di innumerevoli altri. Un giudizio ed una sentenza accidentali, occasionali, ecco il fulcro della vicenda, e questo, più che l’esito incombente, lo assalì, tramortendolo, nella mente prima e nelle viscere poi, e quando la follia del contesto arrivò nelle viscere non seppe trattenersi: e scoppiò a ridere forte. Più forte che poté, in una risata di cui non aveva memoria, una risata sguaiata e sporca: una risata mortale. La donna inferocita serrò i pugni: sanzione sia data, sanzione sia data, gridò. Afferrò il povero professor B** per un piede e roteandolo ripeteva: uomo maledetto che vivi per morire sembrandoti la morte il peggiore dei mali, inganni chi ti dà la vita promettendo solo morte, maledetto! avrai la giusta punizione, avrai di nuovo la vita tu che l’avevi perduta, ma questa volta per sempre. E detto fatto la donna lanciò l’uomo – il professor B** – dritto nel buco aperto dalla lumaca, là dove prima c’era il sesso del maschio figurato: e il professor B** nacque una seconda volta: da un uomo.
Il professor B** chiuse gli occhi per evitare che il vortice d’aria in cui era stato lanciato lo accecasse, sentì l’aria fresca sul viso, avvertì odori di muschio e fiori, e il caldo del sole, poi più nulla e per un po’ perse la cognizione del tempo; abbandonato a se stesso si godette un rassicurante rilassamento muscolare, tanto che la fatica di quella strana sorte si trasformò in un sorriso dolce, mieloso. In quel momento sentì bene una voce famigliare che diceva: dottore venga ce l’ha fatta, sorride, sorride. Spalancò gli occhi. Erano tutte accanto a lui disteso nel letto, moglie e figlie, ed ora anche il dottore che ripeteva: è vero, è vero, un vero miracolo; poi rivolgendosi a lui gli disse pacato: ora l’importante è che lei non si agiti e non si muova, è presto, è rimasto incosciente per un giorno intero, chissà cos’è stato, al momento però sembra tutto passato, un po’ di convalescenza e tornerà come prima, anzi meglio. Il dottore poi si rivolse alle donne di già in gramaglie, invitandole ad uscire e a lasciare il paziente riposare, una tisana la sera e poi tanto riposo.

Il professor B** chiuse un attimo gli occhi, giusto il tempo per avvertire il rumore della porta che si chiudeva, li riaprì e di nuovo era solo, nella sua stanza da letto. Si sentiva straordinariamente bene, in forma; raggranellò nella memoria i pezzi sparsi dell’intricata vicenda intanto che sentiva il formicolio alle mani e ai piedi, il sangue che pulsava nelle tempie, i muscoli sodi che vibravano dentro, ansiosi di muoversi; aveva anche un discreto appetito: altro che tisana, pensò. Era vero, si disse, era in gran forma, ce l’aveva fatta, un incidente di percorso per riprendere meglio di prima. Poi tra i frammentati ricordi, vagolando nella loro nebbia, gli sovvenne quel grido disumano: avrai di nuovo la vita tu che l’avevi perduta, ma questa volta per sempre. Ricordava solo quello tra le tante cose udite nell’incoscienza di un sol giorno; quel grido che anticipava un apparente dono mentre si realizzava una minaccia peggiore della morte: la minaccia della vita eterna. E ne rabbrividì.

Michele Mocciola

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