Ssssssst: parlano I Sorci Verdi

Suggerimenti per un'estate diversa dal solito

L’Italia è un paese di invincibili parolai. Non è tanto questione di una logorrea continua in grado di sfiancare un orso già di suo in letargo, e neppure dell’abitudine a discorrere, insistentemente e dovunque, di qualsiasi argomento, perché entro questi limiti avremmo di fronte abiti nazionali, forse molesti, o stancanti, ma quale popolo non ne ha. Il vero problema dell’essere parolai, e nel modo in cui lo sono gl’italiani, appartiene alla sfera della costruzione di uno stile di vita collettiva, di uno stile di amministrazione della res publica, e, in fondo, alla sfera del terreno su cui i cittadini muovono quotidianamente sia nel microcosmo individuale (famigliare, socio-lavorativo), sia nel macrocosmo istituzionale (politico in genere). E l’analisi che segue rappresenterà – mi auguro – come quel parlare continuo fondi sul nulla, o quasi-nulla, di un mondo ipotetico e irreale, rivelando discussioni dell’assurdo e del più tipico nonsense. Sicuramente sarà nella sua sintesi un’analisi per sommi capi, alcuni mi accuseranno di facili generalizzazioni, ma la sintesi di pensiero e di penna – tratto ormai desueto tra gl’italiani – porta per necessità di cose ad una visione generale, e l’esigenza spasmodica del particolare produce le medesime conseguenze che dirò in seguito.
Passando al cennato problema, in genere i discorsi italiani sono infarciti, quando non ne sono l’incipit, di se, di forse, di condizionali, di accadimenti ipotetici e futuri, la cui verificazione, tra l’altro affatto prevedibile, è riposta in mente Dei. Anche di fronte all’accaduto, al fatto ormai divenuto storico e archiviato che, essendosi verificato, non può darsi che non lo sia (quod factum est infectum fieri nequit), gli italiani non lesinano discorsi che iniziano con: se non fosse … sarebbe, ben sapendo che tutto ciò che verrà detto è completamente inutile; se il fatto occorso è sotto gli occhi di tutti, il parlarne come se non fosse accaduto diviene a buon mercato, un mero passatempo. Ma gl’italiani fanno anche di più, dimostrando quella natura di parolai qui segnalata. Dopo avere con grande anticipo disquisito di un fatto paventato ma che allo stato delle cose non si sa minimamente se avverrà o meno (da cui il correlativo carattere nazionale di un’accentuata ansietà), giunti all’appuntamento e preso atto che l’evento non vi è stato, inizia la scorribanda delle argomentazioni sugli effetti di ciò che non è accaduto ma avrebbe potuto accadere. Cioè ci si arrovella con preoccupazione sull’irreale come se reale fosse.
Lo vedete da voi: ragioniamo costantemente sul vuoto degli accadimenti con una tensione (la famosa corda di violino) sempre all’erta, e con incredibili quanto allarmanti conseguenze.
Sul piano linguistico e della costruzione sintattica, il ricorso ai tempi del congiuntivo e del condizionale, richiesti dall’incertezza del contesto, è di necessità; tempi verbali che, però, si rivelano campi minati per i non avvezzi i quali rischiano, come spesso avviene, di saltare gambe all’aria (su certe errate forme verbali ancora qualcuno si scandalizza).
Sul piano del ragionamento, si diffonde – a tutti i livelli – l’abitudine di dare per certo ciò che è mera ipotesi, così sostituendo alla realtà fattuale una realtà teorica, e, a questo punto, diventa irrilevante il richiamo di dati, cifre, statistiche, visto che la ricostruzione si autoafferma. Un indubbio vantaggio quello di prescindere dallo studio, e l’insofferenza italiana per le materie statistiche, quando non sono utilizzate a proprio uso e consumo, ne è la più classica delle riprove.
Ed ancora, sotto il profilo dell’organizzazione (micro e macro), il fatto di essere parolai evita pianificazioni di lungo periodo, che presuppongono trend costanti, quotidiani e ripetitivi (salvo gl’imprevisti da affrontare se e quando accadono). Infatti, ragionare sugli eventi ipotetici – imprevedibili e incerti – dà spazio alla precarietà delle soluzioni in permanente attesa del sospirato imprevisto, assunto come reale. E vale la pena di soffermarsi sul fatto che la prevalenza dell’imprevedibile sul prevedibile, spostando l’attenzione su ciò che è per sua natura incerto sia nell’an che nel quando, non solo fomenta l’ansia individuale e collettiva (foriera di non pochi problemi relazionali), ma ciò che più conta induce gl’italiani a declassare la realtà per confrontarsi, al contrario, su ciò che è ipotetico, teorico e per nulla fattuale: in definitiva, su ciò che non esiste. Il c.d. complottismo è una semplice conseguenza di questo abito nazionale di più risalenti origini.
Sul piano meramente fisico, inutile dire che siffatto costume impone uno spreco inaudito di energie come ogni volta che ci si muove su pilastri d’argilla: i muscoli sono sempre in tensione, la disfatta (cioè la banale realtà del quotidiano, cioè l’assenza di imprevisti assunti come realtà) può arrivare da un momento all’altro, e alla fine della giornata siamo, molto semplicemente, sfiniti perché in fondo non è accaduto un bel niente, la giornata era solo una grande bolla di sapone. Siamo da sempre infantili e immaturi?
L’ultima conseguenza è l’irresponsabilità più appagante. Chi può mai essere responsabile di avere previsto l’imprevisto che non si è verificato? Anzi, è un gran merito avere programmato anche l’imprevedibile, salvo considerare che, organizzando la famiglia, l’ufficio, il ministero, il bilancio (pubblico e privato), ecc., sopra una vasta congerie di ipotesi (tutte quelle che formano il possibile imprevisto), alla fine, se non accade nulla di più di ciò che era ampiamente prevedibile, occorre trovare soluzioni improvvisate e artigianali in grado di affrontare l’unico accidente da nessuno contemplato: il tranquillo e prevedibilissimo andamento delle cose. E in tanto guazzabuglio, ogni decisione è bene accetta, e l’arbitrio sfugge all’attenzione dei più.

Ed allora, in attesa di tornare a essere gl’italiani di sempre al prossimo giro delle stagioni, il suggerimento per questo solo mese d’agosto, fatto di sdraio e ombrelloni e ipotetico riposo, è sforzarsi di avere tra le mani più realtà, più fatti veri e seri, e meno congetture, e di non essere sordi al nostro accorato appello: italiani, almeno sotto la canicola, parlate di meno.

Michele Mocciola

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