MOONLIGHT

Quando il cinema dà spettacolo

Se decidete di vedere il miglior film Moonlight di Barry Jenkins ho un suggerimento per voi: 10/15 minuti prima di entrare nel cinema riflettete su questa domanda: come si forma una personalità umana (sessualità compresa)? Non è necessario avere una risposta prima di guardare il film, e non è neppure necessario arrovellarsi al riguardo, chiedo soltanto di focalizzare il quesito, perché quello è l’argomento che, subito dopo, vedrete scorrere sullo schermo. Questo straordinario esempio dell’arte cinematografica offre una visione nient’affatto azzardata sul processo formativo della personalità di un uomo, processo che prescinde da ogni predeterminazione (azzardo io: neppure genetica) lasciandosi andare alle mille sollecitazioni esterne, di qualunque tipo, che in quel determinato momento coinvolgono la personalità in formazione. Non c’è regola che non sia quella dettata da due signori onnipotenti: il contesto (quindi, il gruppo) e la contestualità (il sincronismo), e come potete capire si tratta (paradossalmente) di non-regole, tanto sono variabili, volubili, e – soprattutto – occasionali. Le tre età del ragazzo in formazione (il protagonista Chiron) segnate ciascuna da un nome – piccolo, Chiron, Black – sono regolate dagli avvenimenti che si accavallano, dalle persone che incontra, dalle strategie sincroniche delle corrispondenze temporali che – insieme – creano la realtà e la personalità, in un unicum inscindibile, e anche irripetibile. I contesti scolastico, famigliare e sociale convergono come affluenti a formare quel grande mare delle possibilità che ognuno di noi possiede. Il miglior attore non protagonista Mahershala Ali (Juan lo spacciatore) avverte fin da subito piccolo: decidi tu del tuo destino, ed è vero, ma non senza fare i conti con i contesti e con l’interazione tra il singolo e quei contesti. I fatti si sovrappongono, si susseguono, si sfiorano; i rapporti umani si sincronizzano oppure si scontrano (che è pur sempre un sincronismo al contrario) e piccolo, poi Chiron, poi Black, vorrebbero poter decidere ma di fronte c’è un vasto mare da cui attingere o in cui affogare (rinvio alla scena in cui Juan insegna a piccolo a nuotare). L’immagine che chiude il film sintetizza tutto questo (e non dico altro per non rovinarne la bellezza). Alla fine resta la domanda rivolta a Chiron dall’amico di sempre: chi sei? con la risposta più semplice che potete immaginare: sono io. L’io non programmato che si fa, nella dispersione di una biologia atipica.
Moonlight offre anche molto altro: antropologia delle origini (quella della specie homo sapiens, lo ricorda Juan), costruzione della sceneggiatura attraverso le immagini stesse (nel senso che il film non racconta a mezzo immagini qualcosa di preconfezionato, ma con le immagini costruisce la sua storia), e nel contempo una sceneggiatura formale impeccabile (la scansione nelle tre età del protagonista è di alta precisione in rapporto con le scene che le anticipano e le seguono), imprevedibilità dei comportamenti. Ma di questo si può dialogare in seguito, dopo una eventuale seconda visione, conoscendo meglio il testo cinematografico di Barry Jenkins, i suoi dettagli estetici e narrativi (e ve ne sono). È sufficiente ora entrare al cinema, abbandonando l’idea di vedere un film sul razzismo, il disagio sociale, la sessualità, la tossicodipendenza, e tutto l’armamentario sociale di cui pare non possa farsi a meno da queste parti nostrane, e concentrarsi su quell’unica domanda iniziale e poi …: godetevelo, belli (citazione dal film).
Michele Mocciola

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