Elle, l’ultimo film di Paul Verhoeven, uscito il 23 marzo in Italia, ha avuto un trattamento abbastanza immeritato, nelle recensioni che ho potuto visionare. Non che sia stato stroncato: più o meno tutti hanno dovuto riconoscerne, quantomeno, la riuscita tecnica (bravura degli attori, efficacia della regia, eleganza delle scenografie). E non pochi sono rimasti avvinti da una trama (tratta dal romanzo Oh… di Philippe Dijian) che miscela con grazia thriller, dramma e commedia satirica. Il problema è che il film sembra sia stato interpretato in modo non soltanto superficiale, ma decisamente fuorviante.
Sembra, insomma, che i recensori abbiano costruito un’interpretazione standard in tre passi, man mano che guardavano il film: dapprima, cadendo nella trappola della scena iniziale (lo stupro della protagonista Michèle da parte di uno sconosciuto), hanno dedotto frettolosamente che il film parla di una donna vittima di violenza sessuale. Eppure, già il romanziere era stato chiaro, in un’intervista: «Non ho scritto la storia di uno stupro, ho scritto una storia che comincia con uno stupro». Poi, notando che questa donna non si comporta come vorrebbe lo stereotipo della vittima (non lascia trapelare emozioni e non chiede subito aiuto), i critici hanno corretto il tiro rifacendosi a una psicologia semplificata che parla del “tenersi dentro il trauma”. Infine, trovandosi di fronte alla freddezza e spietatezza generale di Michèle lungo l’intero film, hanno cercato di salvare il salvabile, optando per l’immagine della “donna forte che riesce a superare i suoi problemi e sconfiggere i suoi oppressori”. Così, però, il film è come se non fosse stato visto.
Questa difficoltà di vedere, da parte della critica, denota quanto sia forte l’attaccamento ai luoghi comuni, da parte di persone che si presumono scolarizzate, anzi colte. Persone che, dato il mestiere che fanno, dovrebbero avere scolpito in testa che l’arte è bella non solo perché ben fatta, ma proprio perché riesce a rompere la coltre dei cliché di una data società, e a illuminarla di una luce nuova, rivelando una conoscenza meditata dell’essere umano. Difatti, lungi dal propinare allo spettatore una tipica storia di redenzione femminile, Elle descrive un contesto (attuale, europeo, benestante) dove i rapporti tra persone (uomini e donne che siano) risultano, alla fin fine, sempre all’insegna della prevaricazione grossolana o sottile, della soddisfazione sessuale egoistica e sovente perversa, dell’impulso dispettoso a ferire. Mancano completamente l’affetto più banale come la vera amicizia, la complicità erotica e il saper perdonare. Lo stupro, qui, è solo il punto più estremo, e insieme il modello sotteso, dei rapporti quotidiani. E la nostra protagonista è assolutamente dentro a questo mondo; ne è forse la regina, essendo figlia e vera erede – dietro una fredda rispettabilità – di uno psicopatico a tutti gli effetti. Nonostante subisca lo stupro, lei stessa non fa che seguire perversioni egocentriche e voglie aggressive (giocando per altro un gioco pericoloso con il suo stupratore), ossia non fa che colpire, rovinare e finanche uccidere gli altri. Non ci sono facili vittime e facili carnefici, nel regno di Michèle, ma una crudeltà che attraversa tutti, e che ciascuno poi esprime a seconda delle sue possibilità (di far del male).
Verhoeven, noto per alcune pellicole volutamente scandalose sul versante del sesso e/o della violenza, approda al suo capolavoro lucido e disincantato, oltre ogni possibile velleità di scandalo. L’opera di un autore ateo dichiarato che mostra che cos’è veramente questa società desacralizzata, e perciò profondamente insensibile, dove ci troviamo a vivere: una patina di noia e ridicolaggine, smossa da un fondo di follia, che ogni tanto erompe, portando il vessillo della morte trionfante. Elle, la Mort.
Sembra, insomma, che i recensori abbiano costruito un’interpretazione standard in tre passi, man mano che guardavano il film: dapprima, cadendo nella trappola della scena iniziale (lo stupro della protagonista Michèle da parte di uno sconosciuto), hanno dedotto frettolosamente che il film parla di una donna vittima di violenza sessuale. Eppure, già il romanziere era stato chiaro, in un’intervista: «Non ho scritto la storia di uno stupro, ho scritto una storia che comincia con uno stupro». Poi, notando che questa donna non si comporta come vorrebbe lo stereotipo della vittima (non lascia trapelare emozioni e non chiede subito aiuto), i critici hanno corretto il tiro rifacendosi a una psicologia semplificata che parla del “tenersi dentro il trauma”. Infine, trovandosi di fronte alla freddezza e spietatezza generale di Michèle lungo l’intero film, hanno cercato di salvare il salvabile, optando per l’immagine della “donna forte che riesce a superare i suoi problemi e sconfiggere i suoi oppressori”. Così, però, il film è come se non fosse stato visto.
Questa difficoltà di vedere, da parte della critica, denota quanto sia forte l’attaccamento ai luoghi comuni, da parte di persone che si presumono scolarizzate, anzi colte. Persone che, dato il mestiere che fanno, dovrebbero avere scolpito in testa che l’arte è bella non solo perché ben fatta, ma proprio perché riesce a rompere la coltre dei cliché di una data società, e a illuminarla di una luce nuova, rivelando una conoscenza meditata dell’essere umano. Difatti, lungi dal propinare allo spettatore una tipica storia di redenzione femminile, Elle descrive un contesto (attuale, europeo, benestante) dove i rapporti tra persone (uomini e donne che siano) risultano, alla fin fine, sempre all’insegna della prevaricazione grossolana o sottile, della soddisfazione sessuale egoistica e sovente perversa, dell’impulso dispettoso a ferire. Mancano completamente l’affetto più banale come la vera amicizia, la complicità erotica e il saper perdonare. Lo stupro, qui, è solo il punto più estremo, e insieme il modello sotteso, dei rapporti quotidiani. E la nostra protagonista è assolutamente dentro a questo mondo; ne è forse la regina, essendo figlia e vera erede – dietro una fredda rispettabilità – di uno psicopatico a tutti gli effetti. Nonostante subisca lo stupro, lei stessa non fa che seguire perversioni egocentriche e voglie aggressive (giocando per altro un gioco pericoloso con il suo stupratore), ossia non fa che colpire, rovinare e finanche uccidere gli altri. Non ci sono facili vittime e facili carnefici, nel regno di Michèle, ma una crudeltà che attraversa tutti, e che ciascuno poi esprime a seconda delle sue possibilità (di far del male).
Verhoeven, noto per alcune pellicole volutamente scandalose sul versante del sesso e/o della violenza, approda al suo capolavoro lucido e disincantato, oltre ogni possibile velleità di scandalo. L’opera di un autore ateo dichiarato che mostra che cos’è veramente questa società desacralizzata, e perciò profondamente insensibile, dove ci troviamo a vivere: una patina di noia e ridicolaggine, smossa da un fondo di follia, che ogni tanto erompe, portando il vessillo della morte trionfante. Elle, la Mort.
Massimiliano Peroni
Bellissimo, illuminante, reale e lucida questa analisi così profonda ed originale.
Grazie Massi, Angela
Ti ringrazio, ma io mi sono limitato a vedere il film, perché – ribadisco – tutto è già lì.
Da sottolineare, poi, il feroce contrasto tra tanta ‘mortale freddezza’ della protagonista e il suo deliquio di fronte ad un povero uccellino, ‘vittima’ della Natura che ha il nome di un comune gatto domestico che non rinuncia al suo pasto prediletto, offertogli dall’occasione. Lo stesso gatto che assiste impassibile alla scena iniziale dello stupro. Una Natura indifferente scruta incuriosita le gesta del suo figlio anomalo: l’essere umano.