Appunti sul paesaggio

Da una fotografia dal finestrino

Fotografia di Martina Botta

Quanto deve sembrare bello il capannone per il padrone. Uscito dalla sua villetta col vialetto, le aiuolette minimali, quanto dev’essere contento quando svolta l’angolo e lo trova ancora lì, il suo beneamato, rigido capannone. Quasi quasi abbraccerebbe il muro. Nessun dubbio per il suo senso estetico, non ombra di trauma nei suoi sogni (che probabilmente finiscono sempre lì, croce e delizia dei suoi pensieri), bensì occhi luccicanti e maniche rimboccate. Nel prefabbricato è la sua vita, là fuori c’è un mondo da rifornire. Chi vede una pianura disseminata di industriette a rovinare l’orizzonte può anche continuare a pensarla come gli pare, tanto chi parla fa solo chiacchiere. Questo è e per ora questo rimane, poi si vedrà. Non si contano gli stupidi che non capiscono che manca il tempo per chi ha fame.

D’altro canto, contraria a questa base politica forte e radicata, sta nella sua silenziosa eloquenza la bruttezza della Pianura Padana, qualcosa di incoerente con la memoria secolare, un segnale che accelera l’avvenire e l’avvenire è già qui – ed è così. Gli agglomerati umani che si annunciano, oltre che salvezza e aspettativa, danno il voltastomaco: un’accozzaglia casuale di segnali informi – al ribasso, sproporzionati, estranei l’uno all’altro e al profilo dell’ambiente – che riscrivono il paesaggio come una brutta calligrafia. Casermoni, capannoni, palazzine a singhiozzo… Nei campi non c’è neanche la vertigine dell’accumulo metropolitano. La sconnessione evidente castra il volo dello sguardo che si vuole perdere e lo sguardo, di rimando, perde qualcosa: si abitua a lasciare stare, mette a fuoco il colore e l’armonia degli angoli, per esclusione. Ciò che non trova lo deve ricreare nei ritagli, oppure in sé. Ricordo che un beduino durante un’intervista, un uomo che ha passato la sua vita tra la terra e il cielo del deserto, disse di permettere ai figli di andare a studiare in città, secondo il loro desiderio, ma che lui non avrebbe mai lasciato quelle vastità, perché quando si fermava a contemplarle la visione era fonte inesauribile di immagini, il suo corpo, il suo sguardo vi si perdevano e il suo pensiero si lasciava inondare volentieri; tanto da non poter vivere senza quella dimensione.

Tuttavia, c’è chi opporrebbe a una simile beatitudine, semplicemente, la noia dei paesi. Come pretendere un ritorno? A cosa, poi? La relatività ha distrutto l’unità del mondo, ha sbrogliato la continuità degli usi nel tempo. Forse è l’ammissione esplicita, finalmente, di una mancanza, l’impossibilità per l’uomo di dire “il mondo è definitivamente così”. La terra è per l’uomo un rapporto. Ma uscito dal laccio ambiguo della natura, da millenni ormai, l’uomo ha imboccato la strada del mistero. L’essere umano piuttosto s’incunea nell’orizzonte come può, con arbitrio, astuzia e parziale incoscienza. Azzoppato così nella sua opera, stretto dalle necessità e dalle possibilità, l’orgoglio può cedere il passo all’indolenza – che ognuno faccia un po’ quel che gli pare…  E perdiamo quello sguardo lungo e arioso, colmo di presunzione e di poesia, che tanto aveva illuso i nostri avi.

 

Giacomo Cattalini

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