Le Virtù

Una leggenda culinaria

A mia madre, maestra di Virtù

A Teramo e provincia (in Abruzzo) al Primo di maggio si celebra il rigoglio primaverile con un piatto assai speciale, e particolare: le Virtù. Un’antica leggenda, ricostruita solo di recente sulla base di fogli sparsi, manoscritti e anonimi, narra l’origine di questo piatto unico. Ed ecco il racconto.

Tanti e tanti secoli fa, in un tempo così lontano che nessuno più ricorda, gli Dei si riunirono in solenne assemblea per eleggere – democraticamente – il re dei re, il Dio supremo, il governatore di tutte le terre, dei pianeti, delle acque e degli altri elementi. Non solo, il capo indiscusso avrebbe governato i destini degli uomini tutti: nascituri compresi. Il posto, come è comprensibile, ingolosiva i presenti, indistintamente. La discussione, all’inizio pacata, si era poi, chissà perché, incanalata verso un’accesa diatriba fino a risolversi in veri e propri insulti e improperi di ogni genere. Volarono parole grosse: grasso, senza senno, vagabondo; addirittura qualcuno giura di aver udito con le proprie orecchie un Dio inveire contro un suo pari definendolo: ateo. E non era bastato! dalle parole si era passati alle vie di fatto: sonori ceffoni, strette alle orecchie, calci un po’ dappertutto. Il tenebroso spettacolo del Supremo Collegio agli occhi del mondo intero presagiva sciagure orripilanti, e la pace da tanti auspicata pareva veleggiare verso altre galassie, che, a dire di qualcuno (pare fosse un tale conosciuto per Santelmo), erano gestite da altre divinità, meno animose, meno sanguigne. Restando l’imitazione a specchio il peggior male della nostra progenie, analoghi tafferugli umani scoppiarono qui e lì, a macchia di leopardo, segno che la situazione sfuggiva di mano, e pesantemente. Saputa la qual cosa ecco che si alza il Dio della Curiosità con una brillante idea; dice: ognuno di noi prepari una pietanza che abbia come ingredienti le virtù del mondo, chi avrà preparato la pietanza più buona quello sarà il nostro re. Si mormora, qualcuno contesta. Il Dio delle Consuetudini obietta: perché mai un cuoco dovrebbe essere il nostro re? il Dio che tutti ci governa deve possedere la saggezza non l’arte di spadellare. L’altro con un sorriso compiaciuto di chi sa la risposta, gli fa: amicone mio, non è facile impresa rintracciare il maggior numero di virtù sparse dove nemmeno noi abbiamo contezza, tu forse dimentichi che per rendere più difficile la vita agli uomini le abbiamo nascoste sì tanto bene da non ricordarne i posti, ed ecco perciò che chi preparerà il piatto più buono vuol dire che quello avrà rintracciato più virtù, e tu m’insegni, aggiunse puntando il dito affusolato, che le virtù si rammostrano a chi le merita: quegli è il più virtuoso: quegli merita il sacro scranno. Tutti tacquero per poi applaudire, la proposta fu approvata: unanimità e una sola astensione.
Eppure la pace non tornò. La caccia alle virtù fu terribile e sanguinaria. Per mesi la terra messa sottosopra, sconquassata, invasa da Dei invasati alla ricerca di ciò che loro stessi avevano saggiamente nascosto. Poveretti! s’erano illusi – a quel tempo – di veder crescere le loro creature spontaneamente, tese alla virtù della vita senza le virtù! Aggiungeteci poi che questi Dei, singolari invero, erano convinti di aver occultato le virtù nei luoghi più inaccessibili, i più sperduti della terra, da cui un generale rovistamento di foreste sottoboschi grotte e fondali marini. All’uopo s’erano conclusi accordi bi e tri laterali dove ognuno c’avrebbe guadagnato qualcosa in caso di vittoria. I più maldestri andarono a cercare persino nelle viscere o nelle teste degli animali che, sventrati, spirarono senza nemmeno una parola d’addio, o di compassione. E fu un vero miracolo che fulmini e saette non si abbatterono sugli stessi uomini che in questa occasione non avrebbero nemmeno saputo a che santo votarsi, perdendo all’ultimo il conforto della religione.
Dopo la caccia iniziarono le prove culinarie.
Pentoloni giganti presero a bollire, incredibili miscugli di sgradevoli olezzi e fumi nauseabondi s’ersero tutt’intorno alla terra come una nube, tanto fitta da oscurare la lucentezza del sole. Qualcuno azzardò che si era alla fine del mondo ad opera della stessa mano che l’aveva creato: pianti a dirotto si levarono, supplicando, se doveva esserci, una morte rapida e indolore.
Il giorno statuito per la gara l’umanità tirò un grosso sospiro di sollievo, un unico sbruffo potente che alleggerì appena la malsana cappa; presto avrebbero avuto il nuovo Dio supremo, di tutti padrone. S’apprestò nel salone delle feste il gran tavolo circolare, e arrivarono, scortate, zuppiere colme di bontà fumose, piatti di carne sanguinolenta conditi con santa pazienza, spiedi infilati in galline ripiene di elevata saggezza, brocche di vino distillato da rossa forza, e così via; ciascun Dio indicava l’ingrediente usato che a suo avviso tanto era buono da racchiudere in sé tutte le ricercate virtù, gli altri assaggiavano e giudicavano. Bevvero e mangiarono a sazietà per sette giorni e sette notti, ma, ahimè! la fumata fu nerissima. Ognuno rivendicava la vittoria e riprese l’indecente parapiglia, e tanto bastò a mettere all’erta che nessuna virtù era stata riconquistata, e le speranze dell’umanità languivano per la paura del seguito.
D’un tratto si sente bussare al grande portone dorato e qualcuno annunciò: ecce homo. Pensate come rimasero di stucco quegli onnipotenti! Come osa interrompere il sacro conclave, urlarono in coro, mandatelo via a calci nel culo. Sentiamo cosa vuole, no?, intervenne il Dio delle Relazioni Umane, caso mai ha in serbo utili consigli; buuuuu fecero gli altri; non ci costa niente, aggiunse il Dio del Tempo Perso (e questo era vero), fatelo entrare. E così fu.
Si presentarono un bifolco puzzolente di letame e rosso in viso dal tanto bere e la sua amatissima signora, capelli legati e grembiule ancora unto di cucina fresca; in due portavano un gran contenitore ancora fumante pieno fino all’orlo, e dopo un sudato issa lo sistemarono al centro del tavolo del conclave.
E questo cos’è?, chiesero gli Dei, rosi tra il fastidio e la curiosità morbosa.
Un po’ di pietanza, fece il cafone, sappiamo che siete tanto impegnati con le cose vostre sante e benedette, abbiamo pensato che …;
E questa sbobba?, fece il Dio della Maleducazione.
Nel frattempo solerti valletti alati di già servivano piatti strapieni di quell’odoroso miscuglio.
Gli zotici si guardarono come a consultarsi, poi lei, la femmina di casa, arrossendo disse: non saprei dirle, l’ho inventato io, ci metto dentro tante di quelle cose, ci metto – e abbassò la voce – i rimasugli dell’inverno insieme alle cose nuove che nascono ora che siamo ai primi di maggio, lo sapete voi signori come va, dipende dalle stagioni, ci stanno quelle buone e quelle cattive, questa è stata buona grazieadio.
Dacci la ricetta, donna, tuonò il DIO della Prepotenza, mica possiamo mangiare senza sapere che c’hai messo.
Allora – rispose pronta la donna – ci ho messo:
2 litri di olio o poco più
3 chili di legumi secchi (fagioli tondi, fagioli cannellini, fagioloni, ceci, lenticchie) da mettere a bagno 20 ore prima, i ceci 24 ore, le lenticchie direttamente nell’acqua bollente
3 chili di piselli
3 chili di fave
7 carciofi fritti
3 mazzetti di annita
2 chili di spinaci
2 chili di bietole
2 uova di pasta verde
2 uova di pasta normale
1 uovo di pasta rossa
½ uovo di pasta mista
2 etti di penne
2 etti di conchiglie
3 etti di orecchiette
1 chilo e ½ di polpette
1 osso di prosciutto da mettere a bagno 2 giorni prima
5 mazzetti di misericordia
e poi ancora (senza numerario – n.d.n.)
peperella, borraccia, battuto di carota sedano aglio cipolla, alloro nei legumi, limoni per pulire i carciofi, maggiorana prezzemolo.
Tirò il fiato la brava donna, che l’emozione le aveva giocato un brutto scherzo e aveva parlato tutto d’un botto, paonazza in volto, le mani sudate e strette. Che brutta cosa la superiorità!
Gli Dei, buttati a capofitto nei piatti, ammutoliti, scucchiaiavano con poca eleganza presi da un ignoto ardore mangereccio; guardinghi verso i vicini commensali sempre pronti ad arraffare l’altrui, s’affrettavano per avere il bis.
La coppia si teneva per le mani, avvinte dalla paura: un solo errore sarebbe costata loro la faticosa vita, ma il silenzio faceva ben sperare. Stettero all’erta godendosi attimo dopo attimo l’unico suono che li rappacificava: quello dei cucchiai. Poi uno alla volta gli Dei parlarono: sputarono stupore e meraviglia: è vero ci sono i ceci, e anche i fagioli, e l’erbetta, e gli spinaci, e così via elencando. Li ignoravano bellamente ingurgitando mestoli su mestoli: insaziabili. Finirono i piatti tutti insieme sul filo dell’arrivo e tutti di nuovo serviti per la doppia razione e dire che ne avanzava forse per una terza, tanto era grande il recipiente.
Che volete che vi dica quello era il piatto che avevano così tanto ricercato, lo si capiva dal gusto e dai commenti, dalla soddisfazione che distendeva le fronti spesso corrucciate, e poi erano diventati più buoni tra di loro, si dicevano grazie e prego, si passavano l’acqua, l’oliera e così via, dimentichi delle pregresse liti furibonde cui s’erano lasciati andare negli ultimi mesi: sconciamente. Il linguaggio era migliorato di parecchio, forbito con giusti accenti e senza sbavature, insomma tutta un’altra storia. Quando all’improvviso, come colto da un’illuminazione, s’alzò il Dio dell’Osservazione, in genere silenzioso, e urlò: queste sono le Virtù! Tacquero posate ganasce e mormorii: la cosa era seria, e potete rendervene conto da voi stessi. Gli Dei in scacco da due contadini. Alcuni storsero il muso sporco, altri prima di farlo se lo pulirono, ma il Dio dell’Osservazione continuò imperterrito a onta delle conseguenze, e forte del suo nuovo incarico di Dio della Giustizia delle Cose, osservò: la bontà di questo piatto e tutto quello che ne è seguito ci dimostra che in esso sono raccolte tutte le virtù, perché le virtù non sono una cosa sola ma un insieme di cose ben congegnate e la prevalenza di una sola di esse guasta sapore e contenuto, e poi sono tutti ingredienti che si trovano facilmente, alla luce del sole, quindi io dico che l’uomo ha saputo trovare le virtù che noi abbiamo loro consegnato ai tempi dei tempi e ne hanno fatto buon uso.
Ma noi non vogliamo comandarvi! fecero i due poveretti letteralmente terrorizzati e persi in una condizione di grandiosa umanità.
Gli Dei avviarono febbrili consultazioni e all’unisono convennero che la condizione umana era inconciliabile con la potenza divina: i villici potevano dormire sonni tranquilli.
Un regalo in ogni caso vi spetta, fece il portavoce di tutti, il Dio Tesoriere.
Cosa?, chiese la villica alquanto interessata.
Ci sono, urlò il Dio delle Celebrazioni: a garantirvi un giorno dedicato alle virtù in questo stesso giorno, ogni anno, avrete un’esplosione di verdure, fiori e frutta perché possiate rinnovare per sempre la vostra saggezza.
Quel giorno era il primo di maggio.
La coppia s’inchinò umile di fronte a tanta benevolenza e guadagnò la porta, ma lei, la padrona di casa, la contadina, rimbrottò al marito: dovevi chiedere tu, farti sentire, che regalo è per me? fatica solo fatica pure il primo di maggio che è festa!
Ed è così che ogni anno nei giorni che precedono il primo di maggio rigoglisce la natura offrendo tutti gli ingredienti necessari per le Virtù a rinnovare la riconoscenza degli Dei verso l’innata saggezza degli uomini.
Il giorno successivo gli Dei, ancora pieni di quelle virtù, in un batter d’occhio elessero il Dio supremo che regnò non so quanti secoli, e a quanti mi chiedono, a conclusione di questa storia, perché gli uomini non sono sempre virtuosi e saggi, agevolmente rispondo: perché vogliono assomigliare troppo agli Dei.

Michele Mocciola

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