UNO SPIRITO DI GRAZIA E CONSOLAZIONE

Il Vangelo simbolico di Raymond Isidore

Un gruppo di uomini, all’estrema destra, indica Gesù Cristo concentrato nell’atto di guarire il cieco nato – ed è un tumulto di meraviglia, sbigottimento ed incredulità. Sappiamo poi che il miracolato, di ritorno dalla piscina di Siloe, vedeva perfettamente con i suoi propri occhi. Questo il primissimo piano di un trittico di tele firmate da Domínikos Theotokópoulos, detto El Greco[1] (quella conservata a Dresda è impreziosita da un cagnolino ammaliato dal Cristo: ubiquo, Egli ammansiva le bestie mentre compiva miracoli). Si respira a pieni polmoni, concentrandosi sull’atto misericordioso, quell’aura di sospensione, lo sguardo degli astanti còlto nell’istante che precede la comprensione; si è però portati a credere, all’istante. Il viaggio del cieco verso Siloe non è che una metafora, eppure necessaria. Ma è in secondo piano che il mio occhio può lavorare di fantasia: davanti la tela è completa, quasi congestionata, non esiste spazio per l’immaginazione. Ecco allora nel mezzo, fra due figure innocue adagiate su un gradino in secondo piano, spuntare una sagoma di cui si possono riconoscere soltanto i baffi neri a spazzolino e il basco in testa, nero anch’esso. Guarda fissa la mano di Gesù, posata sugli occhi del cieco mentre spalma delicatamente il fango, prodigioso medium guaritore. E in quegl’occhi che osservano il miracolo scorgo la pace, quella pace recata dalla comprensione: di chi ha già compiuto quel viaggio, che dall’oscurità mena alla luce[2].
Raymond Isidore, come fa notare Edgardo Franzosini[3], nasce inevitabilmente l’otto settembre del 1900: l’otto settembre si celebra la nascita della Madonna. Al contrario della madre di Cristo, però, egli è completamente cieco. La parabola, si potrebbe dire, ha inizio qui. La vita di Picassiette[4] (questo il soprannome che gli abitanti di Chartres diedero a Isidore) è quello che, ad oggi, può considerarsi un infinito testamento spirituale, vicino forse alle esperienze dei Santi, e di queste forse soltanto meno colte – anche se la libertà di interpretazione permette ad ognuno di dare all’Evento la piega che il contesto suggerisce. Cieco comunque, si diceva, come il Nato guarito da Gesù Cristo: e chissà che anche Raymond Isidore non sia stato guarito proprio dal Figlio di Dio, diciamo magari “per corrispondenza”; dopo il fallimento della madre, che tentò di guarire la sua cecità per mezzo di un impiastro d’erbe, a metà fra magia bianca e saggezza da antico rimedio della nonna, la cura miracolosa viene somministrata nella cattedrale di Notre-Dame de Chartres un pomeriggio che la congrega intera si era riunita all’interno dell’edificio, richiamata dal vescovo per una sessione di preghiera comune contro il demonio alato che rombava all’esterno: Louis Denau, un aviatore della cittadina, aveva promesso di passare col suo velivolo attraverso le due guglie della cattedrale, gesto che il vescovo aveva bollato come di scherno verso l’autorità sacra del luogo e quindi osteggiato apertamente. Ed ecco allora la comunità stretta fra le navate in preghiera e, fra i volti tesi e un poco spaventati, lo sguardo spento di Raymond. Il quale all’ennesimo passaggio rombante del diavolo a motore (Franzosini riferisce che si contano quattro passaggi completi del velivolo, conteggio interrotto poi dal materializzarsi del miracolo), punta il naso all’insù, inseguendo con l’udito ciò che la vista (e il tetto della cattedrale) gli nega. I miracoli, lo sanno bene gli esegeti della Bibbia, a volte sono questione di un lampo; e quanto accade a Picassiette non fa differenza: gli occhi vitrei, morti del piccolo, nel tempo d’uno stropiccio, incontrano prima un’intensa luce bianca, irresistibile e insopportabile per delle pupille così timide. Seguono, come un fiume in piena, i colori delle vetrate, che si riversano negli occhi dello spaventato Raymond a fiotti. Come inciso, per un vezzo squisitamente ciarliero, sempre Franzosini rivela che quelle vetrate narrano l’episodio in cui San Silvestro resuscita un toro abbattuto da un mago ebreo con il potere di un sussurro. In ogni caso, ecco spiegata l’espressione “per corrispondenza” usata pocanzi: nessun pezzetto di terra mischiato alla saliva divina, nessun bagno presso la piscina di Siloe; sugli occhi del piccolo la mano di Gesù Cristo s’è posata, nel caso, invisibile e discreta, forse spronata dalle invocazioni devote dei fedeli. E va ribadito, ancora una volta, che Raymond condivide il compleanno con la Madonna: evento che fa certamente credere ch’Ella abbia pur messo lo zampino, in questa guarigione miracolosa. Sia detto, en passant, che Gesù (ri)donò la vista anche al cieco Bartimeo, che però cieco dalla nascita non lo era e, in un certo senso, viveva nell’attesa che Cristo incrociasse il suo cammino, nella speranza d’essere guarito – «Và, la tua fede ti ha salvato» dice il figlio di Dio a colui che ha appena guarito. In comune con Raymond, Bartimeo condivide la guarigione immediata, anche se diverso nell’approccio è il percorso che porta i due fortunati a godere dei colori del mondo. Si conclude qui, sotto le volte della cattedrale, l’iniziazione al cammino di santità di Picassiette, per ora parzialmente inconsapevole del destino che Dio ha deciso per lui.
«Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo»[5].
Il rapporto fra Dio e Raymond Isidore si mantiene su toni cortesi e distaccati per diversi anni; qualche visita alla cattedrale, luogo della sua vera nascita, e nulla più. Quasi come due conoscenti che si stringono la mano trovatisi l’uno di fronte all’altro per strada; un paio di domande di cortesia, poi via ognuno verso il proprio destino. Ma, come già detto, il disegno di Dio procede spesso per lampi e strappi improvvisi. Nel 1935 la municipalità di Chartres assume Raymond come custode: custode della discarica pubblica, per la precisione. Se siete alla ricerca di un colpo di scena, è qui che lo troverete (non che ce ne sia bisogno, invero): il cumulo di rifiuti, sotto lo sguardo opaco di Picassiette, si trasforma in un’immensa stanza del tesoro. Quella massa palpita, reclama una vita propria, una dignità strappatale da mani stolide, peccatrici. E Raymond è colui che può operare il prodigio[6]: comincia a maturare in lui la consapevolezza di poter plasmare, ma si tratta ancora di una consapevolezza informe. Ma annotta e, storicamente, la notte è fonte di rivelazioni: il panorama di quella montagna ha una forma imprecisa, ondivaga come quelle dune che celano i miraggi nel deserto. Voltando lo sguardo verso destra (ce lo dice, al solito, Franzosini: e noi ci fidiamo), Isidore scorge le alte guglie della cattedrale di Notre-Dame de Chartres. Nello stesso istante, la montagna di rifiuti torna a reclamare quell’attenzione che, per pochi istanti, Picassiette le ha negato: la luce della luna inonda la discarica, i riflessi dei cocci di vasi, bottiglie e di tutte le altre meraviglie vetraie lo folgorano. Eccolo, il lampo: «Si rammentò ancora, Raymond, di aver letto in un almanacco che, congiungendo fra loro i punti in cui sorgono le cattedrali che in Francia hanno nome Notre-Dame, è possibile comporre sulla carta geografica, con perfetta corrispondenza, la costellazione della Vergine tale e quale la si vede in cielo. Si stupì per quella nuova associazione che aveva stabilito, nella propria mente, fra la montagna e la cattedrale. Ma non riuscì a trovarla sconveniente. L’innocenza degli artisti è nota. Quella di Picassiette era formidabile»[7]. È l’illuminazione, improvvisa, che colse Saulo di Tarso sulla via di Damasco. Certo, Raymond non si sarebbe mai sognato di perseguitare Dio, Colui che lo guarì per intercessione della Beata Vergine, ma non solo il lampo improvviso unisce i due protagonisti: nella cognizione, quel percorso terrestre illuminato da Dio, camminano l’uno di fianco all’altro. Se infatti Saulo, reso momentaneamente cieco dopo l’improvvisa manifestazione divina (e questa volta il tema della cecità è assolutamente accidentale: il primo pensiero è che Dio abbia voluto mettere il futuro Santo nella condizione di abbisognare dell’aiuto altrui; un assaggio di carità cristiana?), si fece condurre a Damasco, dove restò senza toccare né cibo né acqua per tre giorni, prima di ricevere il battesimo e il successivo mandato ai gentili, così Raymond Isidore cova per giorni questo spasimo di creazione, senza però sapere ancora come (e dove, sopratutto dove) indirizzarlo. I suoi tre giorni, prima del mandato, finiscono quando entra per un saluto nella cattedrale dove aveva acquistato la vista. La trova denudata; tutti i fregi, i rosoni, le vetrate che per primi le pupille del piccolo avevano ammirato, sono scomparsi. Nel timore dell’invasione tedesca (la guerra, nel suo flusso, non si crea problema alcuno, trascina con sé vite umane come meraviglie artistiche, a nulla precludendo lo scempio), la municipalità in collaborazione con buona parte della popolazione ha rimosso ogni decorazione, con cautela, per nasconderla agli occhi dei nemici. Quello spettacolo così triste, scatena in Picassiette una scossa improvvisa; quella materia senza forma, che dalla notte della rivelazione covava dentro di lui, trova ora il suo compimento. Se alla cattedrale avevano strappato il vestito, egli ne avrebbe cucito uno nuovo. Ma non si sarebbe limitato a coprire un corpo già adulto, no: ne avrebbe costruito uno lui, prima di vestirlo di tutto punto: avrebbe eretto la sua cattedrale[8], per ripagare Dio e la vergine di quel dono immenso che a lui era stato elargito anni prima.
«Chi non può rendere, fa male a prendere»[9]
1945: Raymond Isidore, in salute e timido, esce nuovamente di casa al termine del secondo conflitto mondiale; e questa volta con una decisa dichiarazione d’intenti: si accompagna infatti ad una carriola. La piccola abitazione è ormai satura dell’opera dell’artista (egli ha ricoperto ogni stanza della casa di cocci, compresi i mobili, creando splendidi opere simili a mosaici), che giocoforza deve ampliare il proprio orizzonte. Vittime designate: cortile, giardino, muro di cinta. Nei vent’anni che avevano separato la guarigione dall’assunzione presso la montagna d’immondizie, Dio pareva non aver battuto ciglio: nulla era stato richiesto dal Padre a Picassiette dopo il recupero della vista, nessun obbligo di testimonianza o spirito di predicazione. I due si erano ignorati con garbo solenne, avrebbero magari potuto salutarsi incrociandosi per strada, due dita rapide a sfiorare la becca del cappello e un inchino appena accennato. O almeno, questo è quello che crede Raymond: sappiamo poi che il ritorno alla Cattedrale, per una imprevista visita di cortesia, aveva scatenato la quieta tempesta della volontà di ringraziamento. Ed anche in questa serata placida, in cui si scorge Isidore seduto sul suo piccolo trono in cortile, l’Altissimo è soltanto in attesa del momento opportuno per risvegliare la fede nel suo soldato: mentre lo sguardo di Picassiette si divide fra la meraviglia del vagare attraverso il cielo stellato e l’obbligo di ancorarsi al vivere terreno, ecco giungere l’epifania, tanto inattesa in quanto nessun segno apparente era maturato ad annunciarla. Proprio quel cielo, da cui cadde invisibile la coscienza divina e ancora una volta su quegli occhi già toccati, era una delle grandi passioni di Isidore: egli si applicava nella lettura di testi che lo potessero aiutare ad orientarsi nel firmamento, luogo prediletto dei suoi viaggi[10] (le tavole dell’Astronomie populaire erano le sue migliori amiche), ma spesso sconfinava nel territorio del racconto; proprio uno di questi, con tono colpevole, scatena la scintilla del motore divino in Raymond. Si tratta dell’Histoire du Ciel di Camille Flammarion. Nel particolare, una frase colpisce l’animo sensibile di Picassiette, togliendo quel velo che gli negava la consapevolezza di stare percorrendo il cammino della grandiosità. Il testo recita: «La Terra non è sotto il Cielo, il Cielo non è straniero alla Terra; la Terra viaggia attraverso il Cielo; noi viviamo nel Cielo»; la folgorazione è immediata, l’obiettivo chiaro e limpido: quel che resta d’incompiuto all’interno del suo domicilio, lo regalerà a quel Cielo in cui abitiamo. Il Cielo, la casa di Dio, verrà ospitato in Terra da quel che resta da decorare dell’umile cattedrale di Raymond Isidore. Ed è esattamente in questo momento che l’artista consegna al mondo il suo testamento: se prima il cammino di Picassiette aveva seguito le orme bibliche di Santi e seconde voci, ora nessuno lo tiene a braccetto. Attraverso gli scarti dell’Uomo, con gli occhi al Cielo, Raymond Isidore ha scritto il suo Vangelo, consegnando alla Storia la sua storia.
Nella vasta landa di Dio, Raymond Isidore ha eretto la sua cattedrale.
Lieto fine? Non scherziamo, siamo esseri umani. Anni Domini 1964: Picassiette, dopo un soggiorno di qualche mese in un ospedale per malattie nervose, rientra a casa, ma non sembra guarito. Sente la morte farsi da presso, tallonarlo; e decide, forse per procrastinare la fine, che la sua opera non è completa. Alla cattedrale, in fondo, manca un tetto; in senso figurato, ovviamente. In una notte di settembre, una notte insonne e umida, con la fida carriola si getta per le strade di Chartres, alla ricerca di cocci che lo aiutino a completare l’opera. Al quarto (o quinto?) giro della città, il passo di Raymond si fa pesante: nel suo cuore forse prende piede, ora, la consapevolezza che per Dio e la Beata Vergine la cattedrale è perfetta così com’è. Isidore si accascia accanto alla carriola: la sua coscienza lo abbandona in quel momento; a lui, baciato dalla Madonna, Dio ha voluto risparmiare la punizione che gli sarebbe toccata in sorte per la sua testardaggine. Al culmine del lavoro, la Maison Picassiette avrebbe forse rischiato di tramutarsi in una novella Torre di Babele, una testimonianza degenerata in bestemmia.
«Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra»[11]

Franzosini ci informa, quasi fosse una cosa di poco conto, che all’entrata della cappella della maison era presente un piccolo libro di pietra su cui Picassiette aveva inciso la sua “legge” – in pratica una serie di corrispondenze da lui stesso stabilite fra la Madonna e la propria madre, fra Chartres e Gerusalemme, e ancora fra Betlemme e Bonnetable, luogo di nascita della madre[12]. Questo libro, alcuni anni dopo la morte di Raymond, scomparve in circostanze misteriose. Terreno d’intrigo ecclesiale, o una semplice aringa rossa?

Mattia Orizio

[1] La prima tela, del 1567, si trova nella Gemäldegalerie Alte Meister di Dresda; le seconda, datata 1570 circa, è esposta al Metropolitan Museum of Art di New York City. La terza, infine, databile negli anni fra il 1570 e il 1575, è conservata alla Galleria Nazionale di Parma. El Greco doveva certo essere particolarmente attratto da questo miracolo: fra tutte le tematiche religiose e spirituali presenti nelle sue tele, quella del suddetto miracolo la fa da padrona e non si trova, in tutte la produzione, una ripetizione simile.
[2] Gesù conclude l’episodio con queste parole: «Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi». Per la totale comprensione di questo ribaltamento, comunque frequente quando Gesù Cristo opera miracoli, è utile pensare a una legge del contrappasso che trova la sua inflessibile applicazione sia in vita che post mortem.
[3] “Raymond Isidore e la sua cattedrale”, Edgardo Franzosini, Adelphi 1995, p. 28. Al volume intero si deve totalmente l’ispirazione per questo scritto.
[4] Come spiega egregiamente Franzosini, trattasi di un calembour, che raccoglie al suo interno un diminutivo (e vezzeggiativo) di Picasso e l’espressione pique-assiette, sgraffigna-piatti, uso popolare per definire uno scroccone. La virtù di vederci dell’altro, un significato religioso e/o spirituale, per esempio, è dunque disattesa.
[5] Vangelo di Giovanni, 9:25 secondo la versione C.E.I.; curioso il fatto che Giovanni sia l’unico evangelista a dedicare un intero brano al miracolo del cieco nato. Egli ne analizza con minuzia il contesto, i personaggi, le loro azioni e reazioni; l’handicap fisico era forse considerata una colpa, all’epoca: pensate dunque alla portata devastante dell’azione di Gesù, che con un’azione semplice e diretta appiana una differenza non solo fisica, ma ora anche spirituale. Come se perdonasse con bontà un peccato antico: tutti sono uguali, davanti al Signore.
[6] Mai come in questo caso, si faccia attenzione alla sottile differenza di significato fra i termini prodigio e miracolo. Dove il prodigio rimane un fatto di straordinaria qualità e potenza, racchiuso però nella sfera dello scibile e dunque declassato alla sfera umana, il miracolo è prerogativa divina, sovrannaturale, un fatto al di sopra delle leggi naturali.
[7] Sempre “Raymond Isidore e la sua cattedrale”, Edgardo Franzosini, Adelphi 1995, p. 65.
[8] La Maison Picassiette può essere considerata a tutti gli effetti come una nuova creatura; l’abitazione originaria di Raymond Isidore rappresenta lo scheletro, l’intelaiatura se vogliamo, di un’opera di ben più ampio respiro. Come se la cattedrale pensata in quel momento fosse stata innalzata dalle fondamenta del pensiero di Picassiette.
[9] Ibid., p. 72.
[10] Raymond Isidore, in tutta la sua vita, si allontanò da Chartres una volta soltanto, quando aveva due mesi di vita. I genitori avevano portato la famiglia intera all’Esposizione Universale di Parigi, grazie a dei biglietti gratuiti che il padre aveva avuto in cambio delle prestazioni lavorative offerte proprio per lo sviluppo fisico dell’Esposizione. Ce lo riferisce, come sempre, Edgardo Franzosini (p. 30); pensate allora all’importanza di quel cielo sconfinato che Raymond osservava ogni sera: esso arrivava a rappresentare la vita.
[11] Genesi, 11:4
[12] “Raymond Isidore e la sua cattedrale”, Edgardo Franzosini, Adelphi 1995, pp. 121-122.

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