COVID-SPECCHIO

Questo virus rivela chi siamo

Avvertenza: Per esigenze stilistiche e comodità espositiva indicherò con il termine Covid  (senza 19) direttamente questo nuovo coronavirus e non la malattia relativa.

Covid scivola via come niente, linguisticamente parlando; davanti a uno specchio ripetete quel nome più d’una volta: noterete la morbidezza delle labbra sfiorate, il mascellare rilassato, e la parola sfugge carezzando, allungandosi sulla i, con quella d finale accennata che, salendo appena, dolcemente tronca. Forse, si alza un sopracciglio. Covid covid covid. Come ci sentiamo bene!
Eppure, Covid, nome di un organismo incompleto, armonioso nella pronuncia, ha scatenato una guerra. Guerra in parole, per ora, ma quanto ci mancava! cosa volete, ne sono state condotte di guerre negli ultimi decenni: alla droga, alle mafie, ai trafficanti, al consumismo, ai poteri forti (tanto per dire), ma volete mettere una Guerra alla pandemia! Affrontare un nemico invisibile che attenta l’umanità tutta è roba da mitologia pura, è da sciocchi lasciarsela sfuggire.
La forza logorroica della Guerra Universale, chi se lo aspettava! è stata proprio una gran fortuna averci Covid tra i piedi.
Eppure, dovremmo essere più cauti al riguardo. Cosa possiamo mai rimproverare ad un organismo incompleto: assolutamente nulla! lui fa quello che può e che deve, e non ha modo di fare diversamente. E gli altri organismi, quelli viventi e completi, non sono certo diversi; anche loro fanno ciò che possono, ciò che gli serve: nessuno si è mai lamentato, e nessuno si è messo in testa di rimproverarli.
C’è un solo essere vivente conosciuto che ha sempre molte alternative al suo arco biologico, e può fare e disfare in molti e variopinti modi, tutti diversi, e anche contrapposti: l’essere umano. Noi.
Guarda che strano! Noi che possiamo scegliere tra molti indefiniti comportamenti, adattandoci alle situazioni più variegate e strampalate, proprio noi a quel povero organismo incompleto, che vaga e si sposta in base a quel solo e sparuto modo che conosce, tra l’altro senza avere la più pallida idea delle conseguenze delle sue migrazioni, chiediamo di comportarsi diversamente e di fare cose che non sa fare: cioè, di non fare il parassita.
Nessun edificio reggerebbe alle risate del mondo delle scimmie davanti a questo spettacolo (F. Kafka, Una relazione accademica).
E siccome il nostro Covid non cambia – appunto perché gli è matematicamente impossibile – noi gli abbiamo dichiarato Guerra!.
Proviamo, allora, a modificare la prospettiva, ad essere relativi a, e non relativisti (mera degenerazione concettuale), e riflettiamo: l’armonioso Covid si comporta come sa fare, e pretenderne un cambiamento è vano; noi, se siamo infastiditi dal suo irritante comportamento, possiamo reagire optando tra molteplici soluzioni (prescindo naturalmente da quelle strettamente sanitarie). Ma quali?
Cari miei, a questo punto il discorso si fa interessante, perché quel povero incompleto parassita, dal nome rilassante, si trasforma improvvisamente in uno specchio impietoso che riflette chi siamo (o siamo diventati) e – soprattutto – cosa siamo in grado di fare. E lo specchio è relativo a, per sua natura.
Quindi, mi soffermerò sugli italiani, e su ciò che si è visto fare in Italia dal 23 febbraio 2020 in avanti.
Non è compito facile di fronte ad uno Stato dall’apparato organizzativo così precario, ondivago, approssimativo, e alle prese con un carattere nazionale impregnato di ansia ed emotività spicciole, miste ad un abbozzo di raziocinio quotidiano, di breve termine. Ma voglio tentare l’impresa: peggio che al filosofo Giorgio Agamben non può andarmi (immagino). Ed io, ovviamente, non sono un filosofo.
La prima reazione: aspettiamo. Aspettiamo che quel Covid lì finisca il suo lavoro, prima o poi dovrà finire, e ci siamo chiusi in casa, alambiccandoci sulle curve e i numeri, che, spasmodici, avrebbero dovuto rivelarci i segreti intimi della creaturina. Insomma, siamo partiti in sordina, nell’attesa di, crogiolandoci tra canzoni e tamburelli alla finestra, bandiere d’orgoglio ed empatia socializzante. Bene così.
La seconda reazione: diamoci da fare. Ed abbiamo messo in campo ciò di cui disponiamo da tempo, e in quantità.
Vanità e Burocrazia erano già lì, pronte a intervenire. Sono appaiate da un comune obiettivo: pensare in grande. E loro in effetti pensano in grande.
La Vanità del sé fisico e del sé addottrinato si è riversata negli angusti spazi nei quali eravamo serrati, mettendoci spalle al muro; la vanità del vaticinio, con la prepotenza sua propria del terribile presagio, ha ammutolito ogni altra voce. Si è invocata la scienza e ci si è improvvisati indovini. Alla fine sono volati gli stracci.
La Burocrazia, fortezza inespugnabile di questa povera terra di confine e di conquista, esaltata dal pionierismo del mai visto da tot anni, ha irrobustito i tentacoli e ha prodotto, oh sì se ha prodotto! normative secondarie e terziarie, di più le seconde (decreti, direttive, circolari, linee guida e protocolli), e moltiplicato gli esperti e i comitati, nel disperato tentativo di tutelare, al contempo, una congerie di esigenze opposte, e di garantire utilità per tutti: salute pubblica e pubblica sicurezza, prevenzione e repressione. Ne siamo usciti ristretti ma liberi, chiusi ma aperti: eravamo senza respiro (per via di Covid) ma intubati dalla logorrea scritta e parlata. Meandri incomprensibili, regole incerte, sguardi smarriti. Alla fine una docile rassegnazione.
Vanità: stampella del singolo; Burocrazia: stampella del sistema; al centro l’inconsistenza delle prospettive. È stato così, perché di prospettive non ve n’erano (e non ve ne sono tuttora), e nessuno – individuo o comitato – si è preoccupato di creare in tempo utile le condizioni per tornare di nuovo all’aria aperta. L’occupazione questa volta è stata più subdola: ci hanno chiusi in casa, e limitato all’osso la libertà di uscire. Geniale! E ancora oggi, a pochi giorni dall’after day, si discute senza un esito chiaro e preciso, ma colmi di terrore perché il futuro prossimo non è stato preparato.
La terza reazione: il mostro è mitologico e quindi la risoluzione necessita di una svolta epocale. E abbiamo iniziato a demolire i capisaldi millenari della nostra biologia oscura e ingarbugliata: la Religione, il Pensiero critico, il Diritto.
Via le chiese, via i filosofi, via gli impianti giuridici consolidati a colpi di dipiciemme (DPCM). Via i funerali, soprattutto, e con loro il sentimento della sepoltura, indizio dell’umanità nascente. L’idea di soluzioni intermedie idonee a garantire il benessere – nei limiti delle possibilità e della mortalità umane – non è stata neppure abbozzata, l’occasione necessitava il classico colpo di spugna. Via!
Intanto, il Covid-specchio allargava l’obiettivo e l’orizzonte e noi, gl’italiani, piano piano, poco alla volta, abbiamo visto ciò che era davanti a noi da qualche decennio (ma finora siamo stati struzzi). E cosa abbiamo visto? una disorganizzazione dell’apparato pubblico-statale, così ramificata, profonda e radicata, così endemica, che un ritocco, oppure un aggiustamento di tiro, diciamo un intervento mirato, non sarebbero stati sufficienti, perché il lavoro richiesto era inesigibile in un tempo tanto limitato.
Trasporti, scuole e università, tribunali, ospedali, uffici pubblici, nulla si è salvato dalla pandemia di una organizzazione strutturale che non è mai andata al di là di una spicciola durata di qualche mese, al massimo di un anno. Che non si è mai preoccupata di risparmiare sul tempo dei pendolari, dei viaggiatori, degli utenti allo sportello, dei testimoni in attesa del turno. Nessuna visione d’insieme e di lunga durata.
Siamo allora impazziti, e impazzendo abbiamo invocato a gran voce le conference call, lo smart working, skype, gli applicativi, perché era necessario illuderci che era quella l’unica soluzione per vincere la guerra contro un così terribile nemico, un nemico tanto caparbiamente attaccato al suo modo di essere. Contro la Natura (il virus) abbiamo schierato la potenza della Tecnologia.
La Tecnologia, cioè il vestito contemporaneo che segna la giovinezza, la bravura, l’intelligenza, lo svecchiamento, ecc. ecc., ci avrebbe consentito di stare a casa, abbandonando quelle viete modalità del tu-per-tu, della dialettica frontale e collettiva, dove caso mai occorre sgomitare per farsi sentire, e impegnarsi per raffinare le proprie convinzioni se si vuole essere convincenti. Una tecnologia maldestramente utilizzata in Italia fino ad oggi, che dovrebbe essere complementare e non sostitutiva, è diventata l’unica alternativa in un Paese che si è ritrovato con strutture portanti fatiscenti e abbandonate all’improvvisazione occasionale dei dilettanti. Siamo in pieno deus ex machina.
La realtà, invece, è molto diversa. Ci siamo semplicemente ritirati lasciando il campo di battaglia al nemico, perché non eravamo in grado di fare nient’altro che quello. Covid sapeva cosa fare, noi no.
Mi chiedete del futuro? Il futuro è altamente incerto: nessuno sa come si comporterà l’incompleto, ma noi sappiamo bene che non abbiamo margini di manovra, perché la disorganizzazione dalle nostre parti è nella capacità ideativa, nella conoscenza degli effetti a lungo raggio, nell’avversione a concetti quali: ordine delle cose, risparmio di tempo, concatenazione dei lavori, responsabilità individuale, abbandono dell’ego. Non abbiamo idea né di cosa fare né di come farlo.
Per adesso, possiamo ritirarci e confidare nella buona sorte.
Arrivederci al prossimo lockdwn.

Michele Mocciola

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