Contro la ricerca dell’equilibrio di genere

La dimenticata neutralità del pensiero umano

Immagine tratta dal film Shining di S. Kubrick
Allarme OCSE: “Eccessivi squilibri di genere” titolava una sbigottita la Repubblica giorni addietro, e il dramma che si consumava è presto detto: troppe insegnanti-donne nell’area ocse, addirittura il 68% (https://tinyurl.com/kug5vre). C’è quindi da pensare che il genere di appartenenza dell’insegnante determini sugli ignari studenti un effetto ben più marcato di quanto ne possa conseguire a risibili differenze comportamentali tra uomini e donne, e deve trattarsi di un effetto così negativo da imporsi al più presto un necessario riequilibrio. Il grido di dolore giornalistico in verità si limita a snocciolare cifre, percentuali e serie preoccupazioni all’interno dell’organismo internazionale, e tuttavia se c’è una logica nelle affermazioni e, soprattutto, negli allarmi – e non saranno I Sorci a pensare che non vi sia – deve concludersi che si paventano grandi danni educativi in conseguenza del citato squilibrio. E non c’è da stare tranquilli, perché il fenomeno non è circoscritto agli insegnanti ma coinvolge altri settori; ad esempio, dalle nostre parti lo squilibrio è pure nella magistratura, visto che i dati statistici (aggiornati al 7.3.2017 – https://tinyurl.com/meqg69z) indicano un maggior numero di magistrati-donne rispetto agli uomini. Sono trascorsi appena cinquant’anni dalla legge che ha rimosso l’ostacolo per l’accesso delle donne in magistratura (legge n. 66 del 1963) e già dobbiamo pensare ad un futuro e necessario riequilibrio in termini di quote azzurre? Prima volgiamo uno sguardo all’indietro.
I movimenti femminili novecenteschi, con tutto il loro corredo di proteste, iniziative e barricate, valevano a superare, in una società in via di radicale trasformazione sociale e politica, le evidenti e indebite disparità tra uomini e donne; le società del ‘900 cambiavano insieme alle loro strutture, al pensiero, agli atteggiamenti e in tali cambiamenti si inseriva quello – non procrastinabile – di una diversa collocazione delle donne, in tutti gli ambiti. Le molteplici insofferenze erano nei confronti dell’intero sistema sociale in ragione di una esclusione delle donne dall’apparato complessivo che governava la società: un’esclusione innanzitutto normativa (legislativa). Quella che, in realtà, più conta. Le richieste erano precise e ben direzionate: il suffragio universale in politica, condizioni di eguaglianza sul lavoro e nell’accesso alle professioni, una nuova disciplina della famiglia e dei rapporti intrafamigliari. Le norme ad excludendum volgevano al termine di fronte ad un nuovo pensiero che mal concepiva una differenza di genere in grado di giustificare quella estromissione. E le società mutarono effettivamente: subentrarono schemi e strutture diverse, le elezioni divennero a suffragio universale, e altre leggi aprirono la strada in vista di un perfetto egualitarismo. Ecco!, una nuova società succedeva ad un’altra, languidamente al suo tramonto. Questo è il modello tuttora vigente, e il dato acquisito è – primariamente – normativo: cioè, le regole che organizzano l’attuale società sono improntate a questo schema.
Ebbene, le donne del secolo scorso, le protagoniste di quei movimenti, non chiedevano di votare, insegnare, essere giudici e rettori, e non chiedevano un diverso riconoscimento al loro ruolo in famiglia e in società, soltanto per compensare una bilancia storta, no!, volevano che il loro genere potesse usufruire delle medesime possibilità e occasioni, delle stesse opportunità: le donne avrebbero potuto fare bene ciò che gli uomini facevano bene. Si invocava con fermezza una reale uguaglianza, fatta di eguali possibilità e un uguale trattamento. Questo era tutto, e non era poco, perché si affermava un altro principio, quello di fondo che sembrava ineludibile: non c’è appartenenza di genere che tenga, il pensiero è necessariamente neutro quando si tratta di insegnare, studiare, scrivere sentenze, tenere lectio magistralis, dirigere aziende, governare, proprio perché la facoltà di pensiero è equamente distribuita tra uomini e donne. Ognuno ci metterà del suo, ovvio, ma a conti fatti si è in pareggio. L’uguaglianza, insomma, si diceva – e oggi possiamo ripetere – è alla radice.
Ed allora, quale pericoloso fraintendimento, dalla misteriosa origine, si nasconde nell’idea balzana che occorre un rimedio alla preponderanza femminile nell’insegnamento? Ed ancora, cosa si nasconde nella trovata pubblicitaria delle c.d. quote rosa che forza gli esiti elettorali per ottenere il pareggio tra generi? La necessità di garantire un eguale numero di componenti dei due generi (e per adesso parliamo di due, ma se ne avvicinano di prepotenza altri) rivela che non è mai stata abbandonata l’idea secondo cui ciascun genere è portatore di propri interessi, atteggiamenti, schemi mentali, tutti incompatibili con gli analoghi del genere opposto, e che ciascun genere è votato all’affermazione d’autorità, cui si cerca di ovviare – democraticamente – con un forzoso riequilibrio percentuale. La tensione ideale per una società animata da un sentimento di reale uguaglianza tra i generi, dove non contano i numeri ma le possibilità iniziali, pare sfumare per lasciare il posto ad un vecchio pregiudizio, sebbene con la novità che oggi, a differenza del secolo scorso, a voler prevalere sono entrambi i generi.
Accomodatevi, signori e signore, la guerra tra generi è appena all’inizio.
Michele Mocciola

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