Un laico di fronte alla religione

Pensieri sparsi tra Leopardi e la Teologia della liberazione

Monsignor Óscar Romero.
Il Piatto Forte * del numero 23 della rivista I Sorci Verdi, è stato tale anche per me.
Fa parte del mio modo d’essere accettare ogni “istigazione”. Se poi è “a una rivoluzione”, è un invito a nozze.
Forse, l’affermazione che “vuole che il sentimento religioso sia nato come una risposta all’ansia che l’esistenza esercita sull’essere umano”, non è soltanto “un diffuso luogo comune” ed è certamente sensato ritenere che “la coscienza di sé è anche consapevolezza della propria fragilità e sopra ogni cosa paura della morte”, “l’evento naturale, la normale conclusione della vita”.
Confesso di averlo sempre pensato, peraltro in buona compagnia, se pensiamo a Ugo Foscolo e alla sua “religione delle illusioni”, al suo (e di tutti) “desiderio di eternità, che proietta la vita anche dopo il nulla eterno”.
Le parole con le quali il grande poeta, uomo del suo tempo, ma segnato da un profondo “dissidio interiore”, ha dato una risposta al “bisogno umano” di “negare la realtà indigeribile, lenire l’ansia e l’orrore della morte”, su di me hanno sempre suscitato profonde emozioni: “Ma perché pria del tempo a sé il mortale/ invidierà l’illusion che spento / pur lo sofferma al limitar di Dite? / Non vive ei forse anche sotterra, quando / gli sarà muta l’armonia del giorno / se può destarla con soavi cure / nella mente de’ suoi? Celeste è questa / corrispondenza d’amorosi sensi, / celeste dote è negli umani; e spesso / per lei si vive con l’amico estinto / e l’estinto con noi, se pia la terra / che lo raccolse infante e lo nutriva / nel suo grembo materno ultimo asilo / porgendo, sacre le reliquie renda / dall’insultar de’ nembi e dal profano / piede de vulgo, e serbi un sasso il nome, / e di fiori odorata arbore amica / le ceneri di molli ombre consoli”.
Parole che esprimono un profondo, nobilissimo “materialismo”, un bisogno tutto umano, nelle quali, uomo del mio tempo, ma, purtroppo o per fortuna, non insensibile ai problemi degli uomini di ogni tempo, mi sono sempre riconosciuto: E poi vi è la “sacralità” delle “reliquie”…..
Da razionalista convinto, non sono mai approdato al “sacro”, anche se, senza sapergli dare un nome, ho sempre vissuto quello “stupore che diventa un’intima partecipazione dell’uomo con il mondo che lo circonda”, di cui leggo nella “istigazione”; ma non ho mai avuto la “fede” ed ho sempre disconosciuto qualsiasi “ruolo non solo privato ma eminentemente sociale della fede religiosa”. Nondimeno, ho sempre cercato e ho trovato “qualcosa che sappia dare senso, scopo e direzione al mio agire ed essere”; l’ho trovato, sia nell’”imperativo categorico”, kantiano, sia nel “regno della libertà”, in cui l’uomo, finalmente libero dal “regno della necessità”, avrebbe potuto realizzare pienamente sé stesso, come sottende il miglior “materialismo scientifico”, che permea la filosofica politica di Karl Marx, soprattutto i suoi “scritti giovanili”.
Mai convinto della possibilità di trovare una qualsiasi risposta al “perché” della mia esistenza e, soprattutto, alle ragioni per le quali spenderla, ho scelto la strada del cammino e della lotta comune con gli altri uomini verso un mondo diverso e possibile, qui e ora, con l’occhio e la mente ai principi dei quali ho detto.
Mi sono sempre riconosciuto nei sublimi versi de “La ginestra”, di Giacomo Leopardi, a mio parere oltre che grande poeta, grande filosofo, “materialista”, ma non privo di un afflato “spirituale” profondissimo: “Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato, e che con franca lingua, / nulla al ver detraendo, / confessa il mal che ci fu dato in sorte, / e il basso stato e frale; / quella che grande e forte mostra se nel soffrir, né gli odii e l’ire / fraterne, ancor più gravi / d’ogni altro danno, accresce alle miserie sue, / l’uomo incolpando del suo dolor, ma dà la colpa a quella / che veramente è rea, che de’ mortali / madre è di parto e di voler matrigna. / Costei chiama inimica; e incontro a questa / congiunta esser pensando, / siccome è il vero, ed ordinata in pria / l’umana compagnia, / tutti fra se confederati estima / gli uomini, e tutti abbraccia / con vero amor, porgendo / valida e pronta ed aspettando aita / negli alterni perigli e nelle angosce della guerra comune”.
Mi ci sono sempre riconosciuto, pur ritenendo che non sono “frutto di natura”, i concreti rapporti sociali, quelli determinati dalla “reificazione” dei rapporti umani, conseguente alla proprietà privata, sulla falsariga del pensiero di Jean Jaques Rousseau e di Karl Marx.
Ho sempre pensato che avesse ragione chi riteneva che, in fondo, anche il pensiero di Karl Marx presuppone una sorta di “peccato originale”, una ragione con la quale “spiegare” l’ingiustizia: l’ho sempre pensato e credo lo abbia ben individuata Jean Jacques Rousseau laddove ha scritto che “il primo uomo che ha recintato un pezzo di terra e ha detto <questo è mio>”, vi ha dato origine.
Ad un certo punto della mia vita, tuttavia, la religione l’ho incontrata, proprio sul cammino che avevo scelto.
Dapprima da lontano, nella “Teologia della liberazione”, nel ruolo che numerosi membri del Concilio Episcopale Latinoamericano, a Medellin, in Colombia, nel 1968, riprendendo alcuni principi ispiratori del Concilio Ecumenico Vaticano II, sottoscritti nel “Patto delle Catacombe”, avevano assegnato alla Chiesa nella società umana contemporanea, ponendo l’accento sui valori di emancipazione sociale e politica presenti nel messaggio cristiano, sull’opzione fondamentale per i poveri, sull’impegno sociale.
Le scelte di molti sacerdoti, fra loro di Camilo Torres Restrepo, Ernesto Cardenal, Miguel D’Escoto Brockmann, Leonardo Boff, hanno avuto un peso notevole su di me, ma più sul mio rapporto con quella Chiesa, che non sul mio rapporto con il “divino”, con lo “spirituale”.
Nel 1996, il Messico, durante il “Primo Incontro Internazionale contro il Neoliberismo e per l’Umanità”, ho incontrato Giulio Girardi, del quale avevo letto alcuni scritti, tra questi Sandinismo Marxismo Cristianesimo. La confluenza.
Giulio Girardi sostiene esservi stato ed esservi “nel cristianesimo delle origini”, “nel capitolo delle eresie” come “ai tempi di Thomas Müntzer o di Jan Huss”, nelle “lotte rivoluzionarie d’America Centrale, del Nicaragua, di El Salvador e del Guatemala”, nel “Movimento dei Cristiani per il Socialismo”, “ispirato dall’esperienza cilena” di “partecipazione dei cristiani ad una rivoluzione popolare”, un dato apparentemente paradossale: “Il Marxismo, considerato tradizionalmente come il nemico principale della fede nel mondo moderno” è stato “assunto da credenti per approfondire la loro fede” e, vi è stato il riconoscimento, da parte dei marxisti, del fatto che “l’ateismo non è un’esigenza né diretta né indiretta dell’impegno rivoluzionario”, che “la contraddizione fondamentale non è quella che oppone gli idealisti ai materialisti, ma quella che oppone gli oppressi ai loro oppressori”.
Secondo Giulio Girardi “il progetto rivoluzionario, con il rigore scientifico che impone, con i conflitti che impugna, con la concezione dell’uomo che implica, può essere pienamente vissuto nella speranza della resurrezione”.
Rispetto alla “fede”, ho sempre pensato e penso che, proprio perché la presuppone, il discorso religioso può essere basato, soltanto, su un “credo”, su appunto “un atto di fede”, di per sé altro dalla ragione.
Forse per me, per tanti anni, il rapporto con la spiritualità, con “lo stupore che diventa un’intima partecipazione dell’uomo con il mondo che lo circonda”, è stato, razionalmente, considerato una domanda senza risposta possibile.
Da lì, il mio riconoscermi nelle parole di Giacomo Leopardi, per un verso, e di Ugo Foscolo, per l’altro.
C’era di più: non nego di aver sempre considerato, in senso letterale, “la religione” come “oppio dei popoli”, anche e soprattutto sull’onda del “capovolgimento” filosofico operato dal pensiero di Karl Marx rispetto all’idealismo hegellano.
Ho sempre continuato a collocarla nella “sfera” personale e non in quella pubblica (anche dove “fenomeno collettivo”), ad identificarla con i sacerdoti della “Teologia della liberazione”, mentre la “Chiesa ufficiale” era, quasi sempre, schierata altrove.
Nel 1991, a Città del Messico, dov’ero stato invitato come “Osservatore internazionale”, una sorta di “garante”, alla firma degli “Accordi di Chapultepec”, fra il governo di El Salvador e l’insorgenza del “Fronte Farabundo Marti per la Liberazione Nazionale”, ho conosciuto uno dei massimi esponenti di detto “Fronte” e del Partito Comunista di El Salavador, Dagoberto Gutierrez, nome di battaglia “Logan”.
Con lui, nei quattro giorni trascorsi nella capitale messicana, ho avuto occasione di conversare a lungo.
In quell’occasione mi ha colpito molto, oltre alla sua straordinaria personalità, anche il suo approccio problematico con la “spiritualità”.
Ricordo che il discorso è iniziato durante una celebrazione in ricordo della figura del Monsignor Romero, il Vescovo di San Salvador, assassinato dagli “Squadroni della morte” del Generale D’Abuisson, mentre celebrava la messa nella cattedrale della capitale, al momento dell’“elevazione”.
Ricordo un suo discorso che mi ha colpito molto: mi ha raccontato di essere rimasto profondamente impressionato dal fatto che molti dei suoi combattenti, tutti militanti comunisti di lunga data, a volte, durante pause dei quotidiani e durissimi combattimenti, si raccoglievano in una sorta di preghiera.
Mi ha spiegato di aver capito che non era soltanto la presenza costante della morte a determinare detto comportamento, ma anche qualcosa d’altro, quella che lui, che si dichiarava “non credente”, definiva “fame di bellezza”.
Qualche anno dopo, nel 1994, a seguito di un mio viaggio in El Salvador e di parecchio tempo trascorso con Dagoberto Gutierrez, allora noto a tutti come il “Comandante Logan”, poi divenuto membro del Parlamento Centroamericano e Vicerettore dell’Università Luterana di San Salvadore, ho tradotto un suo libro, La persona, la fede e la rivoluzione.
Le prime cento pagine del libro contengono una ricostruzione storica della guerra che ha dilaniato El Salvador, dal 1979 al 1991, coinvolgendo la grande maggioranza della popolazione di quel piccolo paese di cinque milioni di abitanti, guerra che ha causato oltre settantamila morti e oltre un milione di “sfollati”, metà dei quali all’estero.
Le ultime dieci pagine, sono incentrate sul tema del “combattente”, “sociale” o in armi e del suo rapporto con la spiritualità.
Richiamarne qualche passo credo sia illuminante, come lo è stato per me.
“Quando la guerra si è dispiegata, abbiamo incominciato ad osservare di più le qualità propriamente umane del combattente ed abbiamo iniziato a scoprire l’uomo dietro il combattente. Per il nostro modo di pensare, è stata una scoperta trascendentale, nel senso che abbiamo scoperto la psicologia e la fede del combattente e ci siamo resi conto che è impossibile che esista qualcuno senza psicologia e che sono molto rari i casi in cui, assieme all’uomo, non ci sia il fenomeno della fede (…). Quando, a Guazapa, le nostre forze hanno iniziato a ridursi e la qualità si è posta in primo piano, abbiamo imparato a combattere con la capacità di entrare nel mondo della spiritualità dell’uomo (….). Per decenni noi comunisti non abbiamo riflettuto su questo. Intere generazioni di rivoluzionari hanno liquidato tutto ciò che concerne la religione ed il cristianesimo, aggrappandosi, come ad una verità assoluta ed irrefutabile, al principio che la religione è l’oppio dei popoli. Così, semplicemente, si risolveva tutto, apparendo sufficiente avere in testa e sostenere questa formula generale, per credere di risolvere i problemi legati alla religione. (….). Stando così le cose, un conto è leggere, attorno al 1850 l’affermazione che la religione è l’oppio dei popoli, un’altra e diversa cosa, è leggerla oggi. Quando Carlo Marx ha fatto quella affermazione, non stava, evidentemente, pensando affatto al Salvador del 1992. Lo ha fatto in un diverso contesto, probabilmente pensando al ruolo della chiesa prussiana ed alla sua storia, legata al potere economico, al potere feudale e sociale dell’epoca; sicuramente, in quel momento e in quel contesto, la frase di Marx aveva senso. Orbene, è necessario distinguere il significato della parola oppio in quel momento da quello di oggi. Quando ascoltiamo la parola oppio, immediatamente la associamo al narcotraffico ed ai narcotrafficanti. Qual era il significato di oppio, quando Marx ha fatto questa affermazione? Aveva un significato diverso da oggi? In realtà significa quasi quasi la stessa cosa; all’epoca l’oppio era utilizzato come una specie di medicamento per curare certi tipi di malattie, così come si fa oggi con la coca. L’oppio era un medicinale che produceva una certa sonnolenza ed è sulla base di questa proprietà che si può intendere il significato di quella frase, nel senso che la religione era la cura dell’anima dell’uomo. Indipendentemente dalla difficoltà, per l’odierno lettore, di sapere cosa volesse dire Marx in quel momento e dalle immagini che i rivoluzionari dell’epoca cercarono di ricavare al proposito, oggi possiamo darle una diversa interpretazione, in sintonia con il nuovo contesto. Oggi sappiamo che oppio del popolo, riferito al mondo moderno, può essere il rock pesante o molta musica per i giovani, importata dai paesi del capitalismo sviluppato. L’oppio che confonde la gente può essere l’<arte> della politica; può essere anche la religione o perfino l’AIDS. Bisogna però, prima di tutto, sapere di che religione stiamo parlando e di che tipo di cristiani stiamo parlando (…). Il fenomeno religioso è inerente alla persona perché è presente nella vita di tutti gli uomini e di tutte le donne. Ma qual è la relazione tra fede e religione? La fede è l’apertura al trascendente, un’apertura che non può essere spiegata scientificamente, che influenza la vita delle persone. Teologicamente la fede è un prodotto di Dio. La religione, invece, può essere considerata l’ambito in cui si esplica la fede, in cui si muove la fede. La religione è un prodotto socio-culturale, la fede è un fenomeno affettivo, dell’anima, legato al trascendente, a ciò che non sempre può essere scientificamente spiegato, benchè determini aspetti della vita dell’uomo (….). Ne consegue che tutti abbiamo un’ideologia e relazioni con la politica, ma non tutti abbiamo la fede. Perché alcuni hanno la fede e altri no? Se mi domandano se ho la fede, se credo in Dio, francamente rispondo che non sono credente; se lo fossi avrei risolto molte cose perché molti problemi, alcuni li risolvono a partire dalla testa (….). Poniamo un’altra domanda: cos’è che salva l’uomo? E’ la fede? Io non credo, io credo che sia la pratica che salva l’uomo e la donna. E’ questo un aspetto magico del cristianesimo che lo differenzia dalle altre religioni, perché non è, in esso, decisivo il fenomeno della fede, ma quello della pratica, cioè la disponibilità dell’uomo nei confronti del prossimo. Se sono comunista lotto per molti anni perché il prossimo abbia terra, lavoro, cibo, perché nessuno lo calpesti e lo sequestri o lo torturi senza che mi si dia nulla per questo, non lo faccio per interesse economico; se è questa la mia condotta nei confronti del prossimo, è questo che determina la mia relazione con Dio, anche se non ho la fede (….). E’ preferibile avere questa pratica che avere la fede; quanta gente ha la fede e sfrutta senza misericordia gli altri! In realtà, ciò che salva non è la fede, ma la pratica”.
Ho trovato molti punti di contatto fra le argomentazioni svolte sulla pagina Piatto Forte della rivista I Sorci Verdi e quelle di Dagoberto Gutierrez.
“Lo stupore di fronte all’immensità” che “diventa partecipazione”, lo “spettacolo straordinario, come quello del cielo stellato”, capace di risvegliare “in noi questo rapporto intimo con il mondo”, il bisogno di un “principio primo ordinativo del vivere sociale” come limite dell’uomo “al proprio arbitrio” e la “fede come apertura al trascendente” come “prodotto di Dio” che “non sempre può essere scientificamente spiegato”, a ben vedere, riportano la questione ai blocchi di partenza, almeno per me.
Per quanto si cerchi di usare la ragione, attraverso la stessa non è possibile arrivare al divino e, di conseguenza, o si fa l’ “atto di fede” o ci si ferma davanti all’invalicabile.
Ovviamente, l’ “atto di fede”, è l’atto più individuale che l’uomo possa compiere, in un senso o nell’altro.
E allora?
Allora ritengo che si debba prendere atto della grandezza limitata della ragione umana e agire di conseguenza rispetto al problema del trascendente, della spiritualità, della fede.
Per quanto mi riguarda, mi riconosco nell’ “imperativo categorico” kantiano come guida dell’agire, accompagnato dalla scelta di un impegno, qui e ora, per realizzare, per quanto possibile, un mondo che rispetti i diritti di tutti, soprattutto di chi, perché più debole, non ne ha.

Per il resto non posso che prendere atto che vi sono domande alle quali, magari per tutta la vita, non si riesce a dare una risposta, nemmeno se, come nel mio caso, si è avuta la fortuna di incontrare persone come Giulio Girardi, Dagoberto Gutierrez “Logan” e tanti credenti testimoni della loro fede con la loro vita quotidiana e persone che, pur non essendolo, hanno impegnato la loro vita per i loro fratelli (… anche dove li chiamano o chiamavano in altro modo) uniformandosi all’imperativo morale “Agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, può volere che divenga una legge universale”.

Vainer Burani


Nota della Redazione: l’autore fa riferimento in particolare agli articoli di pag. 4 Il deserto diventerà un giardino e A cosa serve la religione?, disponibili integralmente qui.

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